Nei giorni scorsi vi sarà sicuramente capitato di leggere su varie testate giornalistiche che gli imputati avranno la possibilità di lavorare nei musei. Quest’affermazione – che ha suscitato fin da subito sterili polemiche – è di per sé vera, ma necessita di molte precisazioni per essere contestualizzata e compresa. Innanzitutto, si tratta di una convenzione dalla durata quinquennale, stipulata tra il Ministero della Giustizia, nella persona di Marta Cartabia, e quello della Cultura, rappresentato da Dario Franceschini, con la quale si è prevista che in 52 sedi statali – tra musei, archivi e biblioteche – sarà possibile dare attuazione all’istituto della messa alla prova previsto dal Codice Penale.
Nessuna concessione ulteriore rispetto alle misure già previste dal nostro ordinamento, dunque. Semplicemente, la previsione di luoghi aggiuntivi in cui 102 persone imputate – in possesso dei requisiti previsti dalla legge – possano eseguire le prestazioni impartite dal giudice quando ammesse al beneficio della sospensione del procedimento e relativa messa alla prova. Si tratta di un istituto che è stato introdotto anche per gli adulti – avendo già una storia meno recente per i minori, per i quali si è rivelato un ottimo strumento di reinserimento sociale – a partire dal 2014, in particolare per rispondere all’emergenza legata al sovraffollamento carcerario per cui l’Italia era stata condannata dalla CEDU con la Sentenza Torreggiani.
Agli imputati per reati la cui pena edittale non superi determinati limiti, viene data la possibilità di sospendere il procedimento penale e contemporaneamente di essere affidati al servizio sociale per eseguire un programma di riparazione del danno ed eventualmente risarcimento, con l’impegno di svolgere lavori di pubblica utilità per almeno dieci giorni. L’esito positivo della prova comporta così l’estinzione del reato e la possibilità di rientrare senza i traumi della detenzione in società.
Quando parliamo di lavori di pubblica utilità, facciamo riferimento a prestazioni temporanee e non retribuite – che in questo caso riguardano la tutela del patrimonio artistico e culturale, oltre che la manutenzione di immobili pubblici – che siano svolte in favore della collettività. Si tratta dunque di una forma di volontariato gratuita – e su questo ci sarebbe molto da ridire –, pertanto le polemiche riguardanti l’assegnazione di occupazioni a persone ree di aver commesso un reato non trovano alcun riscontro.
Mio figlio è disoccupato, a quanti anni deve farsi condannare per avere un lavoro?, leggiamo sui social in commento alla notizia. Ma anche: Il reinserimento è sacrosanto, ma lo Stato dovrebbe preoccuparsi del lavoro anche per coloro che posseggono dei titoli e delle competenze e lo aspettano da tempo, scrivono i giornali che evidentemente non sanno di cosa stanno parlando.
La superficialità e il pressappochismo di certe affermazioni ci fanno capire quanto poco si sappia sull’argomento, ma anche con quanto disprezzo siano considerate persone che non solo sono detenute, ma che, come in questo caso, sono in una fase antecedente a quella della condanna: è ancora in corso il procedimento penale e quella offerta dal nostro ordinamento è una modalità di estinzione del reato, e non della pena che, invece, ancora non è stata comminata.
C’è da dire inoltre che si tratta di reati per i quali le pene edittali detentive sono brevi – raggiungendo al massimo i quattro anni – e per i quali il carcere dovrebbe rappresentare l’extrema ratio, lo strumento cui ricorrere quando non è possibile utilizzarne nessun altro per raggiungere le finalità previste dalla legge. Quello della messa alla prova è dunque un istituto che serve a ricongiungere almeno in parte il dettato costituzionale e legislativo e la prassi, che invece continua a individuare nel carcere l’unica pena possibile, facendole assumere connotati sempre più repressivi. Questo è un aspetto che difficilmente verrà superato dalle riforme messe in campo dall’attuale governo, stante l’eterogeneità delle forze politiche che lo compongono, che molto spesso fanno del giustizialismo e del populismo penale i loro cavalli di battaglia.
Non dobbiamo inoltre dimenticare che il lavoro per le persone detenute rappresenta un preciso elemento del trattamento penitenziario, da svolgere sia all’interno che all’esterno degli istituti di pena, e, dunque, un preciso dovere per lo Stato che ha il compito di provvedere al loro reinserimento sociale. Anziché cercare dei capri espiatori, bisognerebbe interrogarsi sulle falle di un sistema economico e sociale inefficace che vede le persone detenute o che abbiano scontato una pena vittime esattamente come tutti gli altri cittadini.
Basti pensare che chi esce dal carcere porta con sé uno stigma sociale e un pregiudizio che difficilmente gli permetteranno di trovare una ricollocazione – non solo lavorativa – all’interno della società. Essi, infatti, sono stati inseriti dalla Legge Smuraglia in una categoria “speciale” che permette ai datori di lavoro di assumerli ottenendo degli sgravi fiscali per le loro prestazioni. Tuttavia, il pregiudizio e il disinteresse dello Stato sono tali che difficilmente ciò accade, anche a dispetto di un potenziale beneficio economico.
Dunque, la convenzione di cui parliamo è un piccolo passo in avanti che può però essere significativo, rappresentando un impegno dello Stato nel farsi carico di persone imputate e condannate, così come di tutti i comuni cittadini. Ma ancora tanto c’è da fare.