Genova, quartiere della Maddalena. Un ragazzino biondo ascolta i racconti del suo amico, il Pagano, su come si usa un machete. Lo chiamano il Tedesco e ha a stento dodici anni. Sulla cattiva strada è il primo romanzo di Sara Benedetti, edito da Nottetempo. La narrazione svelta e ritmata segue le vite dei ragazzini della Maddalena, nati nel labirinto dei vicoli del capoluogo ligure, dove nessuno ti chiede cosa farai da grande. Dove il futuro sembra una cosa per ricchi e c’è solo il presente, fatto di coltelli butterfly, sangue, eroina e odore di mare.
Il Tedesco, Morango, Toso, il Pagano, Lord Jim, Ethan e Jamila: per trent’anni l’autrice ci fa osservare le loro scelte, i dolori che si portano dietro, i loro fallimenti e le loro vittorie. Sono storie che andranno sempre nel verso sbagliato e lo sai, ma leggendo ti si spezza il cuore lo stesso. Perché Sara Benedetti sa come si dipinge l’umanità, complessa, tenera e bastarda allo stesso tempo, e lo fa senza giri di parole. Genova è il teatro perfetto per tessere i fili di queste vite ai margini, aperta sul mare e chiusa nei suoi palazzi vecchi, poetica e violenta.
Sulla Cattiva Strada è nato da un documentario che hai sceneggiato nel carcere di Torino, le Vallette. Che rapporto c’è tra la verità e la finzione, cosa ti ha spinto a non testimoniare solo il reale ma a inventare una storia?
«L’esperienza del documentario in carcere è stata fondamentale per me, sia come persona che come narratrice. Sicuramente ha segnato una tappa importante. Da lì ho preso spunto per raccontare alcune vite che effettivamente, se non si ha modo di vivere quella realtà, risultano molto lontane dal quotidiano del mondo fuori. Di questo si ha una percezione chiara entrando alle Vallette, ma che anche i detenuti stessi hanno. I reclusi si rendono conto che, al di là di quelle mura, le loro vite non sono prese in considerazione, non sono contemplate nel panorama del mondo che fuori lavora, corre e si diverte. Tu gestisci la tua quotidianità e tutti i tuoi impegni mentre loro, lì, sono chiusi in un eterno presente. Le giornate sono tutte uguali a se stesse. Quindi, conoscendo questi ragazzi, ho incrociato le loro storie, che hanno avuto il piacere e la voglia di raccontare. Non tutti, chiaramente. Ci sono state persone più riservate e altre che invece, proprio in virtù di quell’incomunicabilità di cui parlavo prima, hanno voluto condividerle.
È lì che ho capito che era qualcosa su cui volevo tornare al di là del documentario. È stato un lavoro di cui il regista e io siamo contenti, però volevo raccontare anche altro. E ho scelto la forma del romanzo, lavorando d’invenzione ma prendendo spunto dalla realtà.
Credo che il compito della narrazione sia andare a sondare il possibile, non sempre soltanto il reale, ma le possibilità dell’essere umano. Trovo che questo si possa fare estendendo con l’invenzione le occasioni di riflessione. Il mio è un romanzo con un protagonista, ma è anche un romanzo corale. Si svolge all’interno dei vicoli di Genova dove la comitiva, la gang dei fratelli di strada è un elemento molto forte, a volte più forte della presenza della famiglia stessa. Perciò il romanzo è in realtà corale e questo mi ha permesso di andare avanti a esplorare delle esistenze, delle storie diverse».
A proposito di Genova: l’hai scelta come scenario del romanzo, ma non è la tua città. Nonostante questo, è estremamente dettagliata: com’è stato raccontare un luogo e delle vite così distanti dalla tua realtà?
«Questa domanda mi permette di raccontare qualcosa che per me è molto importante: l’aver corso il rischio di descrivere una città che non era mia, ma alla quale ho dedicato molto tempo. C’è stata una sorta di innamoramento che ho sentito nei confronti di Genova. Ogni città ha il suo spirito, il genius locii di cui parlavano gli antichi. È una sorta di spirito del luogo che infonde di sé gli abitanti, l’architettura, la storia della città. L’atmosfera di Genova mi è sembrata particolarmente forte perché penso che sia un luogo di grandi contraddizioni. C’è un porto, e quindi rispetto ad altri posti della Liguria più situati nell’entroterra, è chiaramente più aperto ai contatti, agli scambi, al mondo. Però, poi, poco dopo il porto, non così distante, c’è la realtà dei vicoli. Una realtà che protegge le persone che ci abitano, pur non essendo un quartiere di vita tranquilla. Questo è il paradosso che ho cercato di mettere in luce nel romanzo: le persone che nascono e crescono nei vicoli lì si sentono al sicuro, anche se quello che devono fare è imparare molto presto le leggi della strada perché altrimenti soccombono.
Io la città l’ho conosciuta vivendola, attraversandola con uno dei ragazzi che avevo incontrato alle Vallette. Quando è uscito, l’ho girata con lui in modo molto autentico, non nei posti da turisti, ma in quelli che i giovani dei vicoli frequentano e vivono. Le persone, lì, mi hanno raccontato che negli anni Ottanta c’erano diversi ragazzini che non erano mai usciti da quelle stradine, neanche per andare a vedere il porto. I vicoli sono tutto il mondo che conoscono. È lì che trovano tutto ciò di cui hanno bisogno: l’amore, l’amicizia. L’affetto che a volte è quello della famiglia, mentre altre volte la famiglia è quasi assente perché magari c’è un genitore in carcere e l’altro se n’è andato. Allora, la famiglia diventa quella dei fratelli di strada».
Nel romanzo c’è sempre questa contraddizione: i vicoli sono una maledizione, ma allo stesso tempo una difesa rispetto a un mondo ancora più crudele o magari ugualmente violento, ma con regole diverse.
«Sì, sicuramente. Almeno il vicolo è un qualcosa di conosciuto, in cui si è cresciuti e le cui leggi si sono imparate presto. In questo senso, è rassicurante. Nel romanzo mi sono voluta soffermare anche sullo sguardo del mondo verso i vicoli e dei vicoli verso il mondo. A volte, si guarda ai vicoli, così come a tanti quartieri difficili in diverse città d’Italia, con uno sguardo da safari. Si cerca quella vita un po’ fuori dalle regole, meno noiosa della nostra che però chiudiamo lì, in quel safari. In realtà, non vorremmo mai avere davvero a che fare con essa. Ma anche lo sguardo dei vicoli verso il mondo fuori è così: quando i vicolari guardano la Genova bene pensano che no, quella non è una vera vita. È troppo facile per essere considerata vita. Loro corrono ogni giorno dei rischi assurdi per guadagnare, c’è molta violenza, ci sono le gang costantemente in lotta per il territorio. Però, è un panorama che trovano familiare. Vale per ognuno di noi: è come se fossimo dei pesci immersi in acqua, quell’acqua lì non la notiamo più perché fa parte del nostro habitat».
Quando si parla dei vicoli di Genova è impossibile non pensare a De André e, infatti, il titolo del tuo romanzo omaggia una sua canzone. Per me è sempre stata difficile da interpretare o, almeno, è stato difficile scegliere un solo significato. Cos’è per te La cattiva strada?
«De André è una matrice di questo romanzo. Le canzoni che ha scritto e che ha dedicato a Genova secondo me ritraggono un mondo dove l’umanità è in primo piano. Mettono sempre in evidenza il fatto che la burocrazia, le regole, un certo “ben pensare” siano molto lontani dall’afferrare la natura umana, che ha troppe sfumature. Io, nel mio piccolo, ho cercato di mettere in luce queste sfumature della vita, che ci sono dentro e fuori dai vicoli.
Nella costruzione di questa rete di personaggi ho voluto attribuire a ognuno un tratto caratteriale che secondo me si può trovare anche fuori dai vicoli, in una contingenza diversa. Ad esempio c’è Pagano, che è la parte di noi che vuole sempre ricominciare, che pensa di avere avuto un brutto giro di carte e che un’altra mano potrebbe andare in meglio. Parla sempre di andare via da Genova, di ricominciare altrove, però senza riuscirci mai. C’è Lord Jim che invece non è originario di lì, viene da Livorno, però poi è rimasto anche lui come incastrato in questa città. Lui, che ha letto Genova come una città quasi del sogno, ci è arrivato dal mare con la sua barchetta.
Sulla cattiva strada si incontrano questi personaggi che però non sono i cattivi: la strada che prendono spesso è sbagliata, ma non solo perché devia dalle regole che la società impone, ma perché a volte non li porta neanche al compimento dei loro sogni per quella sorta di maledizione dei vicoli. In realtà, è una cattiva strada da prendere con molte virgolette perché secondo me non è il primo significato che si potrebbe dare. La questione della scelta è importante: ritengo che l’essere umano possa scegliere in ogni momento della sua vita, però la possibilità di scegliere è sempre soggetta alle alternative che può vedere. Uscire dalla cattiva strada è difficile se effettivamente le alternative non si sono palesate ai tuoi occhi. Magari, da generazioni, la tua famiglia attraversa l’esperienza del carcere o le possibilità di lavoro non sono davvero aperte a te, quindi devi cavartela in un altro modo. Io sposo totalmente la poetica di De André, trovo che a volte le regole siano disumane, così come lo è a volte il carcere. Come recentemente alcuni video hanno portato in evidenza, c’è qualcosa che non sta funzionando in come la società gestisce i devianti dalle sue regole. Il carcere dovrebbe essere un’esperienza rieducativa, che rimotiva le persone a entrare nella società in un altro modo. Invece ho letto che la recidiva, cioè il ritorno al crimine dopo l’esperienza carceraria, in Italia è di circa il 70%. La cattiva strada è molto difficile da abbandonare».
Abbiamo parlato di carcere e il carcere che descrivi nel tuo romanzo è estremamente duro. È un’esperienza agghiacciante da leggere. Si basa su qualcosa che ti è stato raccontato o hai visto alle Vallette?
«La mia esperienza alle Vallette è stata meno dura di quella che ho descritto. Ho seguito il primo anno sportivo della squadra di rugby del carcere di Torino. Le persone che sono state ammesse a far parte della squadra hanno avuto l’opportunità di vivere in un padiglione a custodia attenuata. Questo vuol dire che, ad esempio, durante il giorno non dovevano stare necessariamente in cella, ma potevano convergere all’interno di un’area comune che, rispetto alla claustrofobia che la cella ti fa vivere, è sicuramente un altro tipo di qualità di vita. I normali blocchi delle Vallette, però, non sono così. Quello è un padiglione speciale.
È soprattutto dai racconti dei ragazzi e degli uomini che ho conosciuto che ho appreso una realtà diversa, molto più dura, fatta anche di violazioni delle regole della detenzione. Certo, chi sbaglia deve in qualche modo scontare il crimine che ha commesso, ma fino a che punto si può arrivare nel gestire le vite di persone che hanno sbagliato? L’articolo 27 della Costituzione sancisce la necessità di prendere provvedimenti, ma che questi non siano contrari all’umanità. Quello delle carceri è un problema che riguarda l’Italia tutta, ma che affligge particolarmente il Centro e il Sud. I ragazzi mi raccontavano di condizioni disumane, cioè di 8/10 detenuti per cella. Quindi, se alcuni detenuti sono in piedi, altri devono necessariamente stare stesi in branda perché non ci si entra tutti. Io ritengo che quando una persona vive in una cattività di questo tipo è impensabile che possa uscire rieducata, quindi desiderosa di tornare nella società in modo costruttivo. Quello che si è patito secondo me non è una giusta pena è non è un viverla in modo umano».
Una frase che ritorna spesso nel romanzo è: è colpa di chi muore. Ho trovato strano questo modo di affrontare il lutto: i protagonisti sono dei criminali, perché comportarsi come giudici e porre questo accento sulla colpa? Perché nella morte c’è l’unica colpa non giustificabile?
«Nella mia idea, dare la colpa a chi muore è cercare la responsabilità della durezza della propria vita. A un certo punto, Pagano dice che morire è più facile, è più facile di stare qui a cercare tutti i giorni di portarsi a casa la pelle, di pensare ai figli che hai lasciato a casa se sei in carcere. La morte viene letta come fosse una scorciatoia, talmente è dura la vita quotidiana nei vicoli. È una sorta di risentimento che i miei personaggi hanno principalmente verso le figure dei padri. Nelle vite di Tedesco e il Pagano, ad esempio, i padri sono assenti perché, anche se in modalità diversa, entrambi sono morti in carcere. È come se si fossero sfilati dalla responsabilità di crescere questi figli, che di fatto poi crescono in questa sorta di matriarcato che ho scoperto nei vicoli. Le donne sono molto più presenti degli uomini, uomini ai quali viene imputata una colpa da figli che a loro volta si sottraggono al giudizio».
È un cerchio che non viene mai spezzato: come il padre di Pagano non è stato un buon padre, neanche lui lo è per suo figlio.
«Sì, questo è un meccanismo che ho voluto raccontare ma che in realtà ho individuato anche fuori. Trovo che spesso, nel gestire la nostra vita di persone adulte, pensiamo che non faremo gli errori che sono stati fatti con noi. Purtroppo a volte succede, nonostante ci si metta tutta la buona volontà, perché certe cose ormai fanno parte della modalità in cui abbiamo imparato a vivere. I miei personaggi poi non hanno questa grandissima metacognizione delle loro ferite. La psicologia viene liquidata come qualcosa di inutile. In carcere, il Pagano viene costretto a vedere uno psicologo, il quale dopo poco se ne va sconvolto dalle sue risposte. Non c’è una grande fiducia nei mezzi di indagine della psicologia: vivono in modo istintivo. Alla fine sì, il Pagano, che ha così sofferto l’assenza del padre, di fatto si trova a essere un papà assente e a ripetere un pattern che l’ha fatto soffrire. Questa secondo me è la maledizione dei vicoli: il cercare di scappare da un meccanismo che purtroppo ti riacciuffa e ti trovi a ripeterlo».
Nella prima strofa de La cattiva strada, a una parata militare il protagonista sputa negli occhi di un innocente, che in realtà era un soldato. La violenza, solo perché di Stato, è definita proprio così, innocente. Questo tema torna spesso nel romanzo, soprattutto nel rapporto con la polizia, che sembra una gang rivale.
«Torniamo sulla canzone perché, come dici tu, è molto complessa, si presta a tante letture e questo secondo me è il motivo per cui è così bella. Non voglio che si stigmatizzi la “cattiva strada” intrapresa dalle persone che non sottostanno alle regole che la società si è data, ma è altrettanto pericoloso fare una sorta di giustificazione, un’apologia di una certa vita fuori dalle regole. Uno dei più bei commenti che ho ricevuto fino adesso sul romanzo è che non è giustificatorio né giudicante, ho cercato in realtà una distanza che raccontasse l’umanità, poi se ci sono riuscita me lo diranno i lettori.
I miei personaggi sono figure ambigue: io mi accosto a loro, ma non potrei condividere totalmente ciò che fanno, come non potrei condannarli totalmente. Il primo verso de La cattiva strada ha molto da dire anche sul rapporto con tutto quello che sono le forze armate. Questo l’ho avvertito molto parlando con le persone dei vicoli, ma ancor prima in carcere. Se tu non sei sicuro che lo status quo sia quello giusto, allora le forze armate che difendono lo status quo diventano il nemico. Toso, uno dei miei personaggi, scrive più volte sui muri del collegio della città che le forze di polizia difendono i ricchi. Difendono chi li esclude, quindi necessariamente sono il nemico. Poi questi poliziotti, magari, sono figli del popolo e quindi non sono i ricchi, però la loro funzione è quella di mantenere lo status quo e di punire chi vuole sovvertire, anche ovviamente in modo criminoso, l’ordine che la società si è data».
I tuoi personaggi non sono giustificabili, ma allo stesso tempo sono estremamente umani. C’è amore un po’ per tutti e tutti quanti hanno un amore sulla cattiva strada: nelle loro vite c’è lo spaccio e c’è l’amore, c’è l’amicizia e c’è la rapina. Tutto sintetizzato in questi esseri umani che non si possono categorizzare come buoni o cattivi.
«Ti ringrazio perché questa è un’osservazione che mi fa molto piacere. Il mio tentativo è stato quello di rendere complessi i personaggi, e soprattutto non escludere che possono albergare in loro dei sentimenti perché, di fatto, è quello che ho sperimentato con mano. I miei personaggi sono ispirati alle persone che ho conosciuto nella mia esperienza e queste diverse dimensioni convivevano in loro, esattamente come il protagonista della canzone. Sono stati capaci di tenerezza e di grandi atti di generosità, non solo verso la loro famiglia ma anche verso l’esterno. Io, per esempio, sono stata accolta nei vicoli da adulta, non sono cresciuta li, ma mi hanno invitata a pranzo e cena. Ho girato Genova con loro, ho conosciuto le loro famiglie. Questo però coincide con una spietatezza: se avviene una lotta con la gang rivale, la sera, è senza esclusione di colpi. Questo insieme di diversi aspetti è proprio dell’essere umano, non solo dei quartieri difficili. Ovviamente in contesti meno conflittuali, meno critici, la parte di noi più oscura e violenta viene messa a tacere e censurata per vivere una vita civile. Però, ci appartiene profondamente. Io non credo che siamo predestinati, alla nascita, a essere carcerati piuttosto che benefattori: dipende da un complesso di cause, per prima la possibilità di poter scegliere. E se è vero che il luogo in cui nasci sicuramente determina il panorama che puoi guardare, non esclude che tu possa essere una persona di grandi tenerezze e di profonda umanità pur conducendo una vita al limite».
A proposito di contrasti: nel romanzo c’è il G8 di Genova, che è raccontato in maniera “atipica”.
«Sì, il mio romanzo si estende per trent’anni e in questo lungo arco di tempo il G8 è stato un momento che non si poteva omettere. È descritto, però, decentrando l’attenzione da quello che è stato il fulcro per la società tutta. Il punto di vista è decisamente collaterale, è quello marginale delle persone nei vicoli. Mi hanno raccontato di aver vissuto questa esperienza piuttosto straniante di una Genova diversa da quella che loro vivono quotidianamente perché la zona rossa non permetteva ai turisti o anche i genovesi non residenti di entrare. Non c’erano motorini, macchine, era diventata una sorta di paese, un grande isola pedonale. E poi per quei giorni la violenza istituzionale ha lasciato stare i ragazzi dei caruggi e si è concentrata invece sulle manifestazioni. Ho voluto raccontare questo straniamento e questa mancanza di attenzione verso i vicolari nei giorni in cui la polizia era impegnata a picchiare bravi ragazzi, dicevano. Ovviamente il G8 è stato un evento molto complesso e non lo si può banalizzare, però ci sono state violenze e abusi di potere, quindi fa sicuramente parte di questo filo tematico di cui parlavamo prima».