Conclusa la prova generale per l’elezione del Capo dello Stato con l’affossamento del Ddl Zan sull’omotransfobia, è partito a tutto gas il partito del Draghi for President, con motivazioni diverse ma con un obiettivo comune: liberare Palazzo Chigi trasferendo il suo attuale inquilino al Quirinale. Non ha perso tempo il numero due della Lega, Giancarlo Giorgetti, anticipando quanto riportato nell’ennesima strenna natalizia di Bruno Vespa: «Va bene Draghi che potrebbe guidare il convoglio anche da fuori. Sarebbe un semipresidenzialismo de facto».
Insomma, per dirla alla Carlo Verdone, famolo strano, lo stravolgimento della Costituzione. È questo il Giorgetti-pensiero, l’uomo considerato il migliore della Lega, a sua volta Ministro del governo dei migliori. Al momento, non è dato sapere se tale affermazione sia frutto di un eccesso di draghismo, patologia trasversale molto presente nella compagine governativa, o sottintenda un possibile tentativo di presidenzialismo che ciclicamente torna a farsi sentire, in particolare nei partiti di destra.
Una bomba in casa leghista nel giorno in cui il suo Segretario, impegnato a scusarsi per le contestazioni a Jair Bolsonaro, Presidente di uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia – secondo per numero di morti dopo gli Stati Uniti a causa della singolare gestione costata finora circa seicentomila vittime, cifra largamente sottostimata secondo gli esperti – denunciato alla Corte penale internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità e accusato per gli incendi della Foresta Amazzonica che nel solo 2020 hanno distrutto 8500 chilometri quadrati di vegetazione.
La Lega di Matteo Salvini, delle alleanze in Europa con i sovranisti Orbán e Morawiecki, degli ammiccamenti con alcuni Capi di Stato come Trump e Bolsonaro, quella del Draghi for President e dell’abbraccio con la leader di Fratelli d’Italia, del pro green pass e dei no vax, la Lega di governo e della piazza. La Lega, insomma, buona per tutte le stagioni.
Un’armata Brancaleone passata con disinvoltura dalle invettive antimeridionali e di Roma ladrona a paladina del Sud, sempre con un occhio all’autonomia differenziata e attenta a non sottrarre risorse al Nord a favore del Mezzogiorno. Una strategia perversa che ha segnato il percorso del suo Segretario, più simile al gioco delle tre carte che a una scelta politica seria e credibile, una concezione strettamente elettoralistica basata essenzialmente sullo sfruttamento degli umori e la pancia dell’opinione pubblica, ieri maggiormente sensibile agli sbarchi dei disperati, oggi ai vaccini e ai green pass. Una gara continua all’interno della coalizione di centrodestra e in particolare con la componente che fa capo alla Meloni, che sembra aver clonato alla perfezione il disegno salviniano conferendogli maggiore contenuto politico con gli ingredienti tipici della forza di provenienza, traendo consensi anche tra quella destra nostalgica ed estremista, patrimonio comune e conteso tra FdI e Lega.
Già da tempo al centro di malumori nei suoi massimi vertici e tra i rappresentanti nelle istituzioni, il partito di Matteo Salvini vive in queste ore uno dei momenti più difficili della sua storia recente e i contrasti ormai alla luce del sole tra il Segretario e il Ministro del pro Draghi semipresidenzialista al Quirinale e delle posizioni diverse sulle alleanze in Europa – volontariamente rimarcate in queste ore da Salvini, che sempre più sembra voler spodestare il suo vice intensificando gli incontri diretti con il Primo Ministro – potrebbero preludere a un chiarimento definitivo tra le due posizioni, che però non converrebbe a nessuno. L’elezione del Capo dello Stato sarà il terreno di scontro all’interno delle forze politiche e anche la Lega sarà chiamata a esprimersi con una sola voce oppure a uscire allo scoperto con le due anime per incamminarsi su strade diverse.
Il Carroccio è tempo che decida se essere una forza europeista, di una destra democratica del Paese, oppure quella delle adunate folkloristiche in terra padana, dei cori razzisti e seminatori di odio, dei potentati di famiglia, della distrazione di danaro pubblico, dell’antimeridionalismo viscerale e, in tempi più recenti, del Viminale al Papeete, delle felpe colorate, dell’ostentazione di croci e madonne come amuleti e delle navi dei disperati tenute per giorni al largo senza pietà alcuna.
Nel Paese dei senza memoria taluni accadimenti sembrano perdere la dovuta valenza storica. Le metamorfosi improvvise, che non riguardano la sola Lega ma l’intero sistema dei partiti, sono finalizzate unicamente a calamitare consensi a breve termine in vista della prossima scadenza elettorale. Una politica dell’usa e getta. E questo Mario Draghi lo ha ben presente, adattando tutta la sua azione a un rapporto essenziale con le forze di governo, muovendosi come un bulldozer, dispensando quando necessario contenuti sorrisi e strette di mano. Un rapporto mal digerito che potrebbe convincere più d’uno sulla necessità di un suo trasloco da Palazzo Chigi al Quirinale.