Jhonny Cirillo era un ragazzo di 23 anni. Era, perché è morto suicida, il 26 luglio dello scorso anno, tra le indifferenti mura del carcere di Fuorni, in quella cella in cui era arrivato da appena un mese. Era un rapper, un giovane che aveva trovato nella musica un modo per esprimersi, una valvola di sfogo, un sostegno a quelle fragilità che nessuno aveva saputo guardare con attenzione.
Riguardo alla sua morte, è stato aperto un fascicolo per istigazione al suicidio contro ignoti di cui, però, la Procura di Salerno ha chiesto l’archiviazione, alla quale la famiglia di Jhonny e l’Associazione Antigone si sono opposti. In questi giorni, il Tribunale di Salerno sta decidendo se indagare e fare luce su quanto avvenuto o aggiungere il giovane Cirillo alle centinaia di morti che non hanno volto, tra quelle grate in cui non riusciamo a guardare. Da quanto emerso, il rapper aveva già dato molti segni della sua fragilità nelle settimane prima della morte, con gesti autolesionistici e poi minacciando, nella visita con i medici di reparto – ad appena due giorni dal tragico evento –, di iniziare uno sciopero della fame e della sete. Sintomi di un disagio per i quali – sembra – era stato immediatamente disposto il provvedimento della grandissima sorveglianza mai attuato.
In base alle disposizioni e alle circolari vigenti sul tema, infatti, quando le persone recluse, al momento della prima visita o di quelle successive, dimostrano di essere ad alto rischio suicidario, nei loro confronti devono essere prese misure di salvaguardia e sorveglianza per impedire l’attuazione di tale tragico proposito. A seconda della gravità dei casi può essere disposta dall’area sanitaria e dalla direzione la sorveglianza a vista, la grande sorveglianza e la grandissima sorveglianza, prevedendo quest’ultima un controllo del paziente ogni dieci minuti. Si tratta di metodologie che risalgono a molti anni fa e che probabilmente dovrebbero essere superate, anche alla luce dei nuovi indirizzi sui metodi trattamentali da attuare negli istituti di pena. Tra l’altro, riguardo a tali sistemi, c’è opposizione da parte di molti studi scientifici, che non ne hanno riscontrato alcun beneficio in termini di prevenzione del rischio suicidario. La quotidianità carceraria, infatti, porta prima o poi a momenti favorevoli di attuazione del tragico proposito, nonostante segnalazioni e sorveglianza.
Quando vengono disposti tali provvedimenti c’è il coinvolgimento di tutti gli operatori penitenziari, a partire dall’area custodiale fino ad arrivare a quella sanitaria e trattamentale. Nel caso di Jhonny, la disposizione di grandissima sorveglianza non è mai stata attuata, né annotata nel registro del reparto di detenzione, come confermato dagli agenti in servizio. Tuttavia, nei mesi scorsi, è stato accertato che anche se fosse stata attuata, non si sarebbe potuto evitare il drammatico evento, frutto di un proposito ben saldo del giovane, le cui grida di aiuto erano rimaste inascoltate.
Quanto avvenuto ci pone di fronte a enormi interrogativi, innanzitutto perché Jhonny non è il solo ad aver fatto questa scelta. A oggi, sono già più di quaranta le persone che quest’anno si sono tolte la vita mentre scontavano una pena detentiva, quindi sotto la custodia dello Stato, che avrebbe dovuto farsi carico delle loro debolezze. E sono centinaia le persone recluse che manifestano il proprio disagio con gesti autolesionistici o i cui tentativi di suicidio sono stati sventati dall’intervento degli operatori penitenziari. Questo è il segno di un evidente disagio di cui è portatore il mondo carcerario nel suo complesso, che mostra una percentuale di suicidi di gran lunga superiore rispetto al mondo libero a dimostrazione del luogo patogeno e critico che rappresenta.
Jhonny, come tanti, aveva manifestato evidenti segni di fragilità e necessitava di cure, attenzioni, di un occhio comprensivo che spesso negli istituti manca, di un’istituzione che fosse in grado di vederlo come persona e non come il reato da lui compiuto. La soluzione non può essere la medicalizzazione del paziente, la sua assuefazione a terapie di psicofarmaci sempre maggiore, cui purtroppo si ricorre per oltre la metà della popolazione penitenziaria. La soluzione non può essere un carcere che annichilisce, che svuota, che aliena. Né un sistema che si basa sulla sorveglianza e sull’impedire gesti tragici, senza tentare di allontanare tali propositi dalla mente delle persone detenute.
E allora bisogna indagare su quanto accaduto a Jhonny e a tanti come lui, ma poi bisogna andare oltre. Non è sufficiente accontentarsi di un capro espiatorio, di un dirigente penitenziario che abbia omesso la registrazione del provvedimento di grandissima sorveglianza o di un operatore distratto. Bisogna andare oltre e riconoscere che la grandissima sorveglianza e tutte le metodologie simili non sono soddisfacenti poiché si tratta di automatismi che non tengono conto delle persone che si hanno di fronte.
Il nostro sistema burocrate e giustizialista ha impedito di guardare al di là del reato che il giovane rapper aveva commesso, di leggere attraverso le righe di una storia fatta di sofferenze, di abbandono, di dipendenza mai superata. E allora non può essere abbastanza, e mi piace prendere in prestito le parole che ho ascoltato a una lezione di non poche settimane fa da Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone: «Si dovrebbe costruire un’azione penitenziaria che si preoccupi non solo della vita biologica, ma della vita vera, della dignità. Che renda anche la vita dentro degna di essere vissuta, con strumenti che agiscano sugli elementi soggettivi, non sottraendo gesti ma volontà».
Mostrerò a me stesso che ce la farò, anche se sono stanco non mi fermerò: così il rapper cantava in una delle sue canzoni degli ultimi anni. Eppure Jhonny Cirillo si è fermato, e forse a interrompere la sua corsa verso la vita siamo stati anche noi.