In Italia, un individuo su tre soffre di un disturbo mentale. Parliamo di 17 milioni di persone. Con la pandemia da COVID-19 l’incidenza dei sintomi depressivi è quintuplicata, mentre quella dei problemi psichici è passata dal 6% al 32%. Il Ministero della Salute, nel 27 aprile 2020, aveva attivato un numero verde per supportare le persone a livello psicologico durante la pandemia. In meno di due mesi, le telefonate avevano superato le 50mila. Il consumo di ansiolitici era schizzato alle stelle. Eppure, dopo pochi mesi il servizio è stato chiuso.
In Italia non si parla di malattie mentali. In Italia si fa finta che non esistano. Non una riga viene spesa nei programmi politici, magri fondi vengono stanziati (le ASL mettono a disposizione circa il 3.2-3.3% del loro budget) e non un piano di prevenzione viene portato avanti con costanza nelle scuole. Il dolore interiore, quello della malattia mentale, viene privatizzato. La responsabilità è tua, solo tua, e te la devi sbrigare da solo. A soffrirne maggiormente sono i più giovani. Nel mondo, quasi 46mila adolescenti muoiono a causa di suicidio ogni anno (più di uno ogni undici minuti) e le malattie mentali non diagnosticate sono una fra le prime cinque cause di morte per la loro fascia d’età.
Per questo, le pagine che vengono spese per dare strumenti agli adolescenti per capire i loro problemi sono preziose. Questo lo sa Veronica Satti, autrice di Come una bussola senza il suo nord, romanzo che ha avuto un grande successo proprio tra gli adolescenti. Veronica ha vissuto in prima persona lo stigma e la solitudine: dopo diversi ricoveri per autolesionismo, ha raccontato al pubblico la sua disregolazione, il disturbo borderline. Lo ha fatto con coraggio, e ha deciso di continuare a raccontarlo anche attraverso le pagine del suo testo, trovando nella scrittura il modo di combattere il tabù della malattia mentale e lo strumento per codificarla.
Veronica, quali temi affronti nel tuo libro?
«La tematica principale del mio libro è quella delle cosiddette malattie invisibili. Mi spiego meglio: si tratta di disregolazioni emotive, dal disturbo borderline ai disturbi alimentari, dai disturbi ossessivo-compulsivi alla depressione. Le chiamo malattie invisibili perché se ti rompi una gamba tutti vedono che ti sei fatto male, se invece hai un dolore interiore nessuno lo vede. È più difficile da capire, spesso non è neanche colpa degli altri. Bisogna cercare di creare un nuovo vocabolario per riuscire a far comprendere queste malattie, per codificarle».
Giustissimo, la lingua è anche uno strumento per creare un pensiero. La rappresentazione è poi fondamentale: spesso, nel cinema e nella letteratura queste malattie vengono viste in una luce negativa: il classico cattivo che ha un disturbo di personalità multipla. Tu come hai deciso di raccontarle, invece?
«Sono d’accordissimo con te: da parte dei media, anche nella televisione colloquiale, si utilizzano spesso frasi come “Quella è una pazza”. Io vorrei che certe parole venissero abolite perché non è giusto, perché ci sono persone che veramente hanno queste disregolazioni. Nel mio libro cerco di sensibilizzare sul tema: ci sono cinque personaggi, le mie cinque ragazze che mi hanno aiutato a esprimere con un vocabolario diverso queste malattie, con una premura e un garbo nella lingua e nella prevenzione».
Dicci di più di queste cinque ragazze.
«Le ho chiamate Disorders Girls, che ricorda un po’ Ragazze interrotte, un film che adoro. Ciascuna di loro affronta una malattia: il disturbo borderline, il comportamento passivo-aggressivo, il disturbo dissociativo della personalità, l’anoressia e la depressione. Senza fare troppi spoiler, posso dire che quella che viene vista come una malattia “minore” che fa soffrire meno, in realtà è quella che devasta di più. Questo è proprio per sottolineare che la malattia invisibile è insidiosa, ma si può comunque codificare, si può comunque “vedere” se uno ne ha voglia e si mette a disposizione. Oltretutto, nel libro affronto anche la tematica transgender del MtoF. Ci tengo a precisarlo perché io sono apertamente bisessuale o pansessuale, ho avuto storie quasi più con donne che con uomini, e sono molto legata alle tematiche LGBTQ+. Credo che spesso il problema trascenda l’omofobia o la transfobia: il problema è l’ignoranza. Io sono per l’ignoranza che non va legittimata, su tutto: sulle malattie invisibili come sulla comunità LGBTQ+. Ho subito anche su me stessa queste cose, perciò ci tenevo molto a raccontarle nel libro».
Mi piace il fatto che utilizzi il termine “invisibile” perché è un qualcosa che si associa spesso anche alla bisessualità: non siamo accettati dalla comunità eterosessuale, ma spesso neanche da quella LGBTQ+.
«Guarda, hai detto una cosa giustissima. Io posso dire di essere stata attaccata dagli eterosessuali: i classici ragazzi che ti dicono “Eh, sei così perché non hai mai provato il mio”, che ti inviano foto su Instagram, ho subito delle vere e proprie molestie. Ma dall’altro lato anche la comunità LGBTQ+ mi è andata contro, dicendo: “Non puoi essere bisessuale, devi scegliere tra uomo e donna”. Invece, questa cosa va scardinata, dobbiamo aprirci all’amore libero. Oggi voglio sentirmi libera di stare con un uomo, una donna o una persona transgender, questa è la mia visione dell’amore».
Prima hai parlato di lingua: cosa pensi della polemica relativa alla codificazione linguistica della comunità transgender?
«Leggevo che la Crusca non vuole accettare la schwa. Mi è stato spiegato che la Crusca deve rispettare determinati parametri, ma allo stesso tempo hanno messo in revisione petaloso e, invece, non cerchiamo di rendere la nostra lingua inclusiva. L’italiano è una lingua bellissima, anche molto complicata, è vero, ma che si può comunque trasformare. Possiamo renderla inclusiva, abbiamo questa fortuna. Io uso sempre la schwa, adesso l’hanno inserita anche nelle piattaforme come WhatsApp, quindi penso che dovremmo imparare. Col tempo, ma dovremmo imparare».
A me ha sempre interessato l’unione tra queste tematiche e il pop: come vengono “digerite” dai media popolari e che influenza possono avere sul pubblico medio.
«Nel 2018, ho partecipato al Grande Fratello. In quell’occasione, dissi di essere bisessuale e genderfluid e fuori scoppiò la polemica. Quando uscii, l’Italia non era ancora pronta. Ho vissuto molti anni in America, mio papà è italoamericano, e la situazione era più tranquilla. In Italia invece questo ha creato un sacco di confusione, proteste, mi hanno detto di tutto. L’essere genderfluid non c’entra nulla poi con la sessualità, con l’essere bisessuale, ed è molto difficile far capire questo in televisione. Purtroppo la televisione, essendo vista da tutti, ovviamente ti mette un po’ nel tritacarne mediatico. Non è stato facile per me sopravvivere a questa cosa. Sembra una sciocchezza, ma in realtà è molto difficile. Soprattutto per una persona come me, borderline, con delle disregolazioni emotive».
Penso sarebbe stato difficile per chiunque. Quando diventi un “personaggio pubblico”, chiunque crede di poter dire la sua su di te e sulla tua identità.
«Secondo me questa legittimità, questo “posso dire tutto quello che voglio perché tu ti metti in mostra” non è assolutamente accettabile. Non deve essere così nella televisione, non deve essere così nemmeno nella vita reale. C’è sempre bisogno di rispetto. C’è una grandissima differenza tra il giudizio e l’opinione, e noi siamo purtroppo abituati a giudicare. L’opinione è un pensiero che viene formulato, invece il giudizio è un qualcosa di istintivo, sciocco, spesso si usa per ferire. Io sono per ridare valore all’opinione: stare lì a pensare, prima di scrivere».
I media spesso non aiutano. Ormai sulle piattaforme puoi scrivere un commento istantaneo, è tutto molto veloce, non c’è il tempo per riflettere ed elaborare.
«Nell’ultimo periodo ho riscontrato anche un altro grandissimo problema: quello del clickbait. Mi sono ritrovata di fronte a cose tipo: “La grandissima fobia di Veronica Satti che l’ha devastata”. Poi vai a leggere l’articolo e scopri che ho la fobia delle lenticchie che, però, non mi ha assolutamente devastata. Ovviamente ho preso provvedimenti legali: lo faccio sempre, lo sanno tutti, perché è importante tutelarsi. Sono però molto contenta dei più giovani. Io sono del Novanta, ho 31 anni, e mi relaziono spesso con ragazzi molto più giovani che hanno letto il mio libro. Sono veramente maturi. Non diamo più la colpa ai ragazzi di oggi perché sono gagliardi. I commenti cattivi li ricevo più dalla gente adulta. Spesso mi trovo a dire: “Signora, lei potrebbe essere mia nonna, ma si rende conto di cosa sta dicendo?”, mentre i giovani sono lì sotto che mi difendono. Sono contenta di questa empatia, apertura, sensibilità e senso del giudizio».