La funzione di un museo dovrebbe essere non quella di mostrarci delle cose, ma di permettere di vedere in noi stessi attraverso le cose, di misurarci in relazione agli oggetti esposti.
La prima domenica di ogni mese è un giorno meraviglioso: i musei sono aperti gratuitamente al pubblico.
Per la prima volta ho deciso di visitarne uno in completa solitudine, con la speranza di poter cogliere ogni aspetto positivo da questa esperienza. Ho scelto di cercarmi nella confusione esplosiva di mille colori.
Inizialmente non ne ero certa. Stavo quasi per chiamare i soccorsi, chiedendo compagnia, ma ho respirato profondamente e, con una penna e un quaderno giallo terribile, ho varcato l’ingresso del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
La prima sensazione che ho provato è stata una sorpresa: avevo con me tutto ciò di cui avevo bisogno. Era un’esperienza che avevo sempre vissuto con qualcun altro, tra docenti, compagni, famiglia o altri affetti. Così facendo, avevo avuto modo di apprezzare le mostre in un certo modo, piacevole per molti versi, divertente per altri. Con i miei pensieri con quelli altrui, indagando lo sguardo di chi era con me, cercando di cogliere le percezioni che l’opera era in grado di risvegliare e ponendo domande per saperne di più. Mi ero ritrovata, dunque, dinanzi a lavori che avevano suscitato in me emozioni imponenti ma che, in un certo senso, avevo trascurato per rivolgere la mia attenzione alle sensazioni di chi era al mio fianco in quel momento. Non è da considerarsi un modo sbagliato di approcciarsi all’arte. Probabilmente, è un comportamento diffuso e naturale.
Ed è per questo motivo che, la scorsa domenica, ho deciso di vivere questa esperienza in maniera differente. Ho camminato con la mente leggera tra i saloni, perdendomi spesso tra le immense sale del museo, senza domandarmi se stessi seguendo la giusta direzione o meno. In fondo, non importava. Avevo tutto il tempo e la scelta era soltanto mia. Ho fissato un affresco di Flora, forza che presiede a tutto ciò che fiorisce, per minuti interminabili. Ho ammirato la statuetta di una Venere che esce dal bagno e i busti di Saffo e Berenice, scrutando i loro sguardi quasi a cercare una risposta alle tante domande che aleggiavano nella mia testa. È stato sorprendentemente piacevole scoprire che è possibile comunicare in silenzio con una scultura.
Ho ritrovato un po’ di Picasso in un mosaico di Pompei che rappresenta la battaglia tra Alessandro Magno e Dario. Mi sono soffermata sui dettagli, immaginando che il pittore spagnolo potesse aver preso da lì l’ispirazione per la sua Guernica, raffigurando la stessa spada ma spezzata, la stessa terribile guerra in contesti diversi ma appartenente alla medesima crudele e cruda realtà. E poi, ancora, la testa di Medusa, l’amore tra Apollo e Dafne, tra Marte e Venere, l’erotismo a cui è dedicata un’intera sezione che racconta le credenze di un periodo in cui la sessualità era considerata un talismano capace di garantire protezione. Ho scattato fotografie a tutto ciò che volevo rimanesse impresso nella mia memoria, e camminato tra i capolavori egiziani, lasciando che nella mia mente disordinata si realizzassero scenette di cui mi facevo protagonista, curiosando tra i vari reperti. Per non parlare delle didascalie che corredano le opere: le ho lette tutte, dall’inizio alla fine. E non c’era nessuno alle mie spalle che mi mettesse fretta. Alla fine del mio giro ho anche avuto modo di fare tappa al negozio di libri e souvenir, scegliendo con tutta calma due splendide cartoline che andranno ad abbellire la parete della mia stanza.
Le sale erano affollate di gente che proveniva da tutto il mondo e che, potendo approfittare della giornata dedicata all’arte, era stata disposta ad affrontare ore ed ore di fila. Eppure, tra tutta quella gente, mi sono sentita sola, ma non era una solitudine scottante, fastidiosa o triste. Era il silenzio che stavo cercando.
Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte – eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.
Emily Dickinson parla dell’essere soli al cospetto di se stessi. Domenica ho avuto la possibilità di esserlo di fronte ala mia persona, alle mie sensazioni, alla mia voglia di scoprire, di godere di un mondo altro che è stato rinchiuso tra le pareti di un museo. Ho avuto una conversazione interessante con i resti di un passato che non mi appartiene ma che mi ha permesso di ritrovare la mia voce in silenzio. È stato un viaggio tra Pompei e l’antico Egitto, alla ricerca di sensazioni nuove, di silenzi e di stimoli. Un viaggio che ho scelto di affrontare da sola, perché credo che – delle volte – sia necessario fare della cultura un atto privato. Soltanto per goderne appieno, per apprezzarne ogni aspetto e, forse, anche per il puro piacere di essere egoista dinanzi all’arte.