Parteciperanno tutti i paesi del mondo perché il cambiamento climatico non esclude nessuno: prevista per il 2020 e posticipata, ovviamente, a causa del Covid, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop26) partirà a fine mese. Si tratta dell’evento sul clima più atteso degli ultimi anni poiché riunisce oltre 25mila persone tra Capi di Stato, negoziatori e giornalisti, tutti pronti a discutere sui prossimi passi e sulle decisioni importanti da pendere per salvare il nostro pianeta.
In realtà, sebbene programmi politici e progetti internazionali pullulino di cenni alla riduzione delle emissioni e di transizione energetica, in quanto ad azioni concrete non si hanno ancora le idee troppo chiare. Ciò dipende da diversi fattori. Prima di tutto, molte decisioni e molti provvedimenti vengono elaborati non durante gli incontri ufficiali quanto invece durante quelli informali tra poche persone, motivo per cui, tra l’altro, si è deciso di rimandare la Cop26 invece di farla da remoto, proprio perché sono gli incontri vis-à-vis a portare più risultati. In secondo luogo, i programmi presentati dai vari paesi sono sempre molto astratti, contengono soluzioni a volte non realizzabili oppure non fanno riferimento ai modi pratici con cui giungere ai risultati prefissati.
In più, l’emergenza pandemica ha rallentato molto i lavori sul cambiamento climatico, anche se è bene non cedere alla tentazione di usare il Covid come giustificazione. Certamente, nei primi mesi di pandemia, la questione climatica è passata in secondo piano, anche perché è aumentato l’utilizzo di plastica e prodotti monouso e, di conseguenza, il loro scorretto smaltimento oppure il loro rilascio nell’ambiente. D’altro canto, però, passati i primi mesi, la questione non è tornata in cima alle agende come avrebbe dovuto. Lo stesso Draghi ha recentemente affermato che le due emergenze hanno la stessa importanza ed è giusto tornare a dedicare a quella climatica la stessa attenzione finora dedicata alla pandemia.
Non è solo il Presidente italiano a incorrere in questo errore: purtroppo è piuttosto comune il paragone tra l’emergenza climatica e altri problemi ed emergenze sì serie ma decisamente meno gravi. Questo perché sono in molti, troppi, a sottovalutare l’entità del surriscaldamento globale a causa della sua natura temporale: per un’emergenza che in apparenza non è imminente e per la quale si fissano obiettivi a medio e lungo termine, sembra che si abbia più tempo a disposizione per risolverla. In realtà, non solo non è affatto così, perché i provvedimenti vanno presi da subito in vista degli obiettivi 2030, e certamente non un paio di anni prima. In più, come è ormai noto, l’emergenza climatica è alla base di numerose altre.
Non solo – e sembra assurdo doverlo specificare proprio ora, dopo oltre un anno di pandemia – i cambiamenti climatici e gli allevamenti intensivi favoriscono lo sviluppo di nuovi patogeni in grado di infettare l’uomo. Ma essi sono strettamente legati anche a numerose altre ingiustizie, per lo più sociali, che affliggono l’intero pianeta e, proprio come tutti i problemi legati al clima, peggiorano la situazione degli “già ultimi”.
Che la sostenibilità non fosse solo una questione climatica era già chiaro quando, nel 2015, 193 paesi sottoscrissero gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile stilati dall’ONU, con i quali si poneva l’obiettivo – e ancora ci chiediamo se esso possa essere raggiunto davvero entro il 2030 – di trasformare in meglio il mondo attraverso programmi ambientali, sociali ed economici. La cosiddetta Agenda 2030 dimostrava, infatti, come ogni obiettivo fosse irrimediabilmente collegato agli altri: non esiste salute senza acque non inquinate, non esiste istruzione di qualità senza la sconfitta della povertà e non esiste pace senza parità. Insomma, che lo sviluppo sostenibile permei ogni ambito della vita umana è già chiaro da un po’, eppure è ancora necessario che i giovani attivisti sottolineino quanto le ingiustizie sociali siano correlate al riscaldamento globale.
E proprio a proposito di giovani, l’incontro dello Youth4Climate della scorsa settimana ha concluso il proprio lavoro con la produzione di un documento che spiega quali sono le linee guida di cui tener conto per decidere i prossimi passi. Secondo il documento redatto dai giovani delegati per il clima, il cambiamento deve partire prima di tutto dall’incremento immediato delle energie rinnovabili e il progressivo ma repentino abbandono delle fonti fossili. Il passaggio a un’energia realmente verde, però, non può prescindere dalla creazione di posti di lavoro dignitosi e dal rispetto per le popolazioni locali. Anche il sistema educativo deve adeguarsi agli obiettivi sostenibili, creando dunque consapevolezza sulla questione climatica e formando giovani cittadini in grado di comprendere l’importanza della sostenibilità climatica e non. Per la sua realizzazione, però, il programma deve chiaramente partire da un punto molto importante: l’azzeramento delle emissioni da parte di aziende e istituzioni. Un passo di cui si parla molto, ma per il quale è necessario investire moltissimo in denaro e risorse in breve tempo, eppure siamo ancora lontani dall’azione.
Dopotutto, è proprio questo atteggiamento di indefinitezza che ha portato a essere in ritardo sugli obiettivi. Agire subito non è solo necessario, ma è fondamentale, e ci auguriamo che a partire dalla Cop26 qualcosa cambi. Il problema principale sarà organizzare la transizione energetica in duecento paesi, ognuno dei quali è a livelli diversi in quanto a sviluppo economico ed energetico. Per esempio, l’Africa è il continente che meno contribuisce alle emissioni poiché emette solo il 4% della CO2 globale, eppure è quello che maggiormente ne subisce le conseguenze climatiche, oltre a essere quello con maggiori livelli di povertà. Per agevolarne la transizione è necessario aumentare i fondi a esso destinati. L’Italia si è già detta disposta a raddoppiare la propria somma ma, per un reale cambiamento, in Africa e in tutti gli altri continenti, si dovrebbe parlare di investimenti nell’ordine delle migliaia di miliardi, somme che gli Stati non possono sostenere da soli e dunque è necessario che anche le imprese inizino a investire. In più, come hanno fatto notare gli attivisti della Youth4Climate, si dovrebbero mettere da parte i prestiti e iniziare a investire a fondo perduto poiché un investimento per il futuro che non frutta economicamente ma permette di sopravvivere è comunque un ottimo investimento.
D’altro canto, per attuare la transizione ci sono tantissime cose da sistemare: eliminare i combustibili fossili – che incredibilmente alcuni Stati, tra cui l’Italia, ancora finanziano –, modificare le reti elettriche, rendere più efficienti i trasporti pubblici, investire nelle infrastrutture per le energie rinnovabili. Tutte cose che, per ora, non hanno un piano d’azione ben definito. Ci auguriamo che le due settimane della Cop26 si dimostrino rivelatrici sui prossimi passi e chiariscano una volta per tutte ogni azione necessaria. Ma, intanto, mente i paesi sviluppati si sono impegnati per ridurre le emissioni a 1.5 gradi invece degli accordati 2, e mentre i politici si dicono soddisfatti dei risultati sebbene i ritardi siano ancora troppi, oltre a parlarne, cosa stanno effettivamente facendo nel concreto?