1020: è questo il numero delle vite stroncate, in Italia, in soli nove mesi sui luoghi di lavoro o in itinere, con un aumento delle vittime tra i 20 e i 29 anni. È questo il numero drammatico che ci ricorda come il nostro Paese non abbia a cuore la vita dei lavoratori e la loro sicurezza. La media è di 2.6 operai morti ogni 100mila, più del doppio di altri Stati europei come la Svezia. Quasi 300mila le denunce di infortuni sul lavoro, stando ai dati rilasciati dall’INAIL alla fine di giugno. Trattasi dunque di dati ufficiali, che non tengono conto del lavoro in nero e della manodopera sommersa che raggiunge numeri elevatissimi, in particolare tra gli invisibili: migranti irregolari costretti a lavorare sotto il sole cocente per dieci ore al giorno, andando incontro a malori certi.
Le condizioni sono peggiorate nell’ultimo anno, complice la pandemia. Ben un milione di persone ha perso il lavoro e molte di più hanno raggiunto la soglia di povertà. Questo ha reso ancora più facile a datori di lavoro senza scrupoli imporre condizioni disumane, consci della difficoltà in cui i lavoratori versavano: costretti a turni estenuanti – che portano frequentemente a incidenti – spesso privi di qualsiasi tutela assistenziale e previdenziale, in assenza di dispositivi di sicurezza adeguati. In base agli ultimi controlli, otto aziende su dieci sono risultate non a norma, senza considerare che in molti casi le ispezioni non vengono effettuate per mancanza di personale addetto. Il personale dell’Ispettorato Nazionale del lavoro è stato ridotto del 20% durante il Governo Conte, e anche con le attuali posizioni bandite in appositi concorsi, i sindacati hanno denunciato una carenza inammissibile, che non permette un regolare controllo. Solo nel settore edilizio le violazioni contestate sono state più di 12mila, la maggior parte delle quali penali e riguardanti gli obblighi di protezione dai rischi di caduta dall’alto. Storie di operai che abbiamo sentito fin troppe volte, uomini e donne che non sono mai rientrati a casa dopo il turno di lavoro.
L’Italia non ha una strategia nazionale per la salute e la sicurezza sul lavoro e, nonostante vacue affermazioni di principio, non investe sul tema, dimostrando di non averne alcun interesse. Il Presidente del Consiglio Mario Draghi afferma che si tratta di una situazione inaccettabile, eppure a distanza di poche settimane Luana D’Orazio e Laila el Harim sono morte perché i dispositivi di sicurezza erano stati disattivati sugli impianti presso cui lavoravano. Tutto, per il profitto. Perché quanto guadagnato non è abbastanza, perché non ci sono mai abbastanza risorse per un lavoro dignitoso e non precario.
E così, in base ai dati rilasciati dall’INPS, quest’anno sono stati quasi 250mila i contratti stagionali, mentre il lavoro diventa sempre più precario al grido di i giovani non hanno voglia di lavorare.
La legislazione in tema è eccessivamente flessibile e ciò ha conseguenze disastrose per i lavoratori, come ci dimostrano le continue vicende di licenziamenti collettivi e delocalizzazioni che inseguono il guadagno sulla pelle dei più deboli. Tra i Paesi dell’Unione Europea, solo sei non prevedono il salario minimo garantito. L’Italia è tra questi. In più, manca un efficiente sistema di ammortizzatori sociali e ogni sostegno al reddito viene considerato, da queste parti, un’elemosina ingiustificata di cui vergognarsi.
Pur essendo destinatari di ingenti risorse provenienti dall’Unione Europea, l’agenda politica italiana ha deciso ancora una volta di tralasciare i temi della sicurezza e della prevenzione sui luoghi di lavoro, non inserendoli in alcun modo nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ancora una volta, le modalità con cui l’Italia intende rinascere sono lontane da qualsiasi barlume di diritto umano. Era stato già chiaro allo scoppio della pandemia quando, incuranti, le forze politiche avevano dichiarato quasi tutte le attività essenziali, trattando i lavoratori come carne da macello, la cui vita, a quanto pare, è molto meno essenziale. Come è chiaro che si fatichi a prendere qualsiasi decisione che non aggradi a Confindustria e alle imprese per poi correre a leccare loro le ferite.
E, così, sentirsi sicuri sul proprio luogo di lavoro continua a essere un’utopia, che l’Italia non si sforza neppure lontanamente di inseguire. Milioni di nostri connazionali escono di casa ogni giorno temendo di non rientrare perché per lo Stato in cui vivono – e che dovrebbe tutelarli – le loro vite non contano. Conta solo quanto producono.