Pochi giorni fa, la Commissione Giustizia ha approvato il testo di legge per la modifica del Testo Unico sugli stupefacenti, in vigore dal 1990, che oramai rappresenta una disciplina piuttosto vetusta. L’intenzione è quella di legalizzare la coltivazione e detenzione per uso personale di un massimo di quattro piantine di cannabis, mettendo fine così alla criminalizzazione dei consumatori di droghe leggere. Allo stesso tempo, da un lato si riducono le pene per la detenzione e la cessione di piccole quantità, reati per i quali si propone l’applicazione di misure extracarcerarie, e dall’altro si inaspriscono le sanzioni per il traffico e lo spaccio di grandi quantità.
Dallo scorso anno, la cannabis è stata eliminata dall’elenco delle sostanze più pericolose per gli esseri umani stilato dalle Nazioni Unite, che hanno riconosciuto le sue proprietà terapeutiche. La legalizzazione delle droghe leggere, e quindi la depenalizzazione di quelli che attualmente in Italia sono considerati reati legati al suo utilizzo, è avvenuta in moltissimi Paesi – anche in Unione Europea – poiché è oramai chiaro che le politiche proibizioniste non hanno condotto ad alcun risultato rispetto alla riduzione del consumo.
Questa scelta risulta fondamentale soprattutto per sottrarre miliardi di guadagni alle organizzazioni criminali e per incentivare le strategie di harm reduction – letteralmente riduzione del danno – ossia le politiche pubbliche volte a ridurre gli effetti negativi ricadenti sui consumatori di tali sostanze, sul piano dell’assistenza sanitaria e sociale e di alternativa alle politiche di criminalizzazione. Eppure, l’argomento in Italia rimane un tabù, complice anche l’influenza del Vaticano, e la disciplina resta caratterizzata da una fortissima repressione.
Lo stesso disegno di legge appena approvato è solo un piccolissimo passo verso l’obiettivo finale, dato che dovrà superare le votazioni degli emendamenti che saranno presentati e poi giungere in Aula. Dall’attuale compagine governativa non arrivano notizie rassicuranti: i partiti di destra si sono opposti, poiché non considerano tale modifica legislativa una priorità per il Paese. Anche Italia Viva si è astenuta, probabilmente portando avanti una delle solite strategie renziane.
Intanto, è stata avviata la raccolta firme per la presentazione del relativo referendum e, a dimostrazione di quanto il tema sia avvertito dalla comunità, sono state raccolte più di 200mila sottoscrizioni in sole 48 ore. A sostegno di una simile scelta si è pronunciato poco tempo fa anche il Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, che la ritiene necessaria per togliere spazio alle mafie.
Nonostante sia chiaro che la mancata legalizzazione conduca al proliferare di circuiti illegali, il proibizionismo e la repressione rappresentano al momento l’unica risposta prevista dal nostro ordinamento, che non fa differenze tra droghe leggere e sostanze stupefacenti ben più importanti. Nelle carceri, che si sono rivelate totalmente inefficaci in questi anni, il 25% delle persone detenute è tossicodipendente, mentre ben il 35% è recluso per reati legati alla droga. Tra questi, la parte più consistente, l’80%, sta scontando pene per reati legati al consumo o allo spaccio di cannabis, mentre gli istituti penitenziari vengono presentati all’esterno come covo di narcotrafficanti.
Tali numeri, oltretutto, incrementano il sovraffollamento del nostro sistema carcerario, oramai non più in grado di adempiere a nessuno degli scopi che gli sono assegnati. Da un lato, si sceglie deliberatamente di portare avanti politiche repressive, fino a far scoppiare le carceri; dall’altro, non si prospettano soluzioni soddisfacenti per chi ha una seria dipendenza e continua a essere criminalizzato, anziché fornirgli il sostegno di cui ha bisogno.
Un’astinenza coatta non può mai essere la soluzione, senza che questa sia accompagnata da un percorso di riabilitazione cui il soggetto deve volontariamente aderire, con l’aiuto di servizi territoriali efficienti e vicini ai suoi bisogni. Gli unici strumenti insoddisfacenti messi a disposizione dal nostro ordinamento – come l’affidamento ai servizi sociali o la sospensione della pena con l’adesione volontaria a un programma di trattamento – presentano numerosissime cause ostative che rispondono esclusivamente a una finalità repressiva, nella convinzione populista che tutto sia legato a una questione di scelte, superabili con la sola volontà personale. Invece, chiunque abbia una dipendenza, o semplicemente provi a perorare come legittima la causa della legalizzazione della cannabis, è considerato un fattone, non degno di attenzione.
Fino a quando il modello di riferimento continuerà a essere un trattamento punitivo – alla San Patrignano – non sarà una priorità delle nostre forze politiche adottare un sistema sociale vicino ai bisogni dei cittadini, che sia in grado inoltre di scongiurare circuiti illegali di arricchimento. Fino a quando non ci si farà carico della creazione di un sistema sociale, oltre che penale, soddisfacente, le nostre carceri continueranno a essere luoghi dimenticati di marginalità, da cui si deduce tutta l’inciviltà del nostro Paese.