Finalmente, in Italia, abbiamo una destra coesa e presentabile. Una delle tante anomalie del nostro Paese nate dal dopoguerra, dai blocchi contrapposti e dalla difficile separazione dal nucleo fascista, sembra essere ormai risolta.
Queste elezioni amministrative, infatti, sono la prova generale che una destra europea è possibile anche da noi. D’ora in avanti, toccherà alle varie forze conservatrici dialogare e cercare un terreno comune attorno al “migliore” di turno. Il governo centrale già è frutto di questa nuova realtà. Quelli locali si stanno adeguando in fretta. Napoli funge da laboratorio della politica nazionale.
Moderati, repubblicani, centri vari, socialdemocratici, liberali, renziani, forzaitalioti hanno trovato casa comune nelle tredici sfumature di grigio a sostegno della candidatura di Gaetano Manfredi. Una destra salottiera e convincente che, di fatto, svuota il bacino elettorale del buon Catello Maresca, condannato, suo malgrado, a impersonare la destra dai calzini bucati e dalle urla sguaiate. Più subdola, invece, è l’operazione nostalgia di Antonio Bassolino, perché incentrata su un’ambiguità congeniale al personaggio, dove ai calendiani/renziani riesce ad affiancare una lista LGBT, il cui scopo è solo quello di legittimare la “impoliticità” di una candidatura velleitaria, rancorosa e personalissima.
Le tre destre napoletane sono, in seme, il pensiero “unico conformista” sul quale i migliori intendono spingere l’intero Paese, osannati dai cantori circumvesuviani. Quasi che la politica e l’ideologia fossero fronzoli superati: coagulare attorno alla figura forte dei funzionari grigi e interscambiabili, esattamente come in un qualunque ufficio burocratico. Tipo INPS o Posta. L’elettore medio rimarrà incantato dalle sirene civico-nulliste? Fa quasi tenerezza l’impresentabilità rozza di Maresca già messa alla berlina dalle scazzottate missine. Figure marginali, ma poetiche in questo scenario, sono le “foglie di fico” che tutti e tre i candidati hanno avuto cura di procurarsi. Un’ininfluenza come destino: la scelta di essere dei menestrelli davanti al re.
L’equilibrio, in politica, è dato dalla forza, dal peso, non dal diventare come fondotinta su maschere incartapecorite dal potere fine a se stesso. Schiacciati dalle potenze di fuoco dei capi, quale peso elettorale sperano di conquistare? Orpelli, soprammobili e nulla di più.
Dà un senso di sollievo, quasi di liberazione, il sostegno che alcuni anziani sindacalisti cigiellini hanno offerto ai nostri campioni. È la fine di un’ambiguità durata un trentennio, in cui azioni da padronato di destra ultraliberale hanno trovato appoggio e legittimazione nello storico sindacato dei lavoratori. Anche questa è un’anomalia spazzata via dalla nascita ufficiale della nuova destra italica, che transuma la classe dirigente scafata dei vecchi PCI. Non c’è da stupirsi, quindi, che i giovani, i fragili, i diversi e gli esodati/esondati dai cicli produttivi non abbiano trovato voce e rappresentanza alcuna nel sindacato ufficiale negli ultimi decenni. Le nuove istanze di povertà ed esclusione non sono materia sindacale. Perfetto, basta saperlo.
A Milano, per esempio, narrano di una presunta riconoscenza a Sala (candidato di “apparente” centrosinistra) per l’organizzazione di EXPO, dove giravano contrattini di lavoro da tre euro l’ora. Una vera e propria fregatura per le lavoratrici e i lavoratori che avevano sperato in un effetto ricaduta della manifestazione. Mentre a Roma spopola nei salotti rosanero e nelle basi di destra moderata il super Calenda, forte della sua ibrida e personalissima macchina politica. Così non c’è da meravigliarsi che il migliore napoletano, Gaetano Manfredi, imitando il Presidente del Brasile Bolsonaro, eviti ogni confronto: lui parla da solo.
Contributo a cura di Luca Musella