Al termine di quest’estate densa di cronaca allarmata e incerta, vogliamo raccontarvi una meta vacanziera che forse qualcuno avrà toccato: Zanzibar. Spiagge bianche, mare azzurro, paradisi naturali e una lunga distesa di palme. Il cliché della vacanza perfetta.
E poi ce n’è un’altra, lontana dalla costa, fatta di piccoli villaggi e famiglie semplici. È di questa che parleremo, spiandola attraverso gli occhi di Giulio Carotenuto, giovane dentista napoletano che, quest’anno, ha fatto un viaggio. Ma non per tuffarsi in quel meraviglioso mare che tutti sogniamo imbambolati davanti agli screensaver dei PC. Giulio è partito ma non era solo. Lasciamo che sia lui a raccontarvelo…
«Gocce d’Amore è una ONLUS fondata attraverso una società di assicurazione di cui facevano parte alcuni amici, tra cui Franco Vagelli. Franco è arrivato lì la prima volta tredici anni fa e ha trovato una situazione drammatica. Niente strade, niente infrastrutture, niente treni. Solo l’aeroporto, nato a uso turistico. Oltre alla povertà dilagante, all’interno dei villaggi bambini nella più tenera età non frequentavano la scuola. Passavano intere giornate per strada, vivendo spesso di elemosina. Ha così deciso di intervenire, fondando la ONLUS. Con l’aiuto di Juma – una persona del posto che conosceva già l’italiano, ora nostro referente – hanno trovato un accordo con i capi-villaggio. Da allora, sono stati aperti tredici asili che accolgono 987 bambini provenienti da tutti i villaggi. Gocce d’Amore si è occupata del progetto, dell’acquisto del terreno e, attualmente, della gestione».
Com’è stato accolto il vostro arrivo lì? Avete incontrato degli ostacoli nella realizzazione di questo progetto?
«Dal punto di vista politico, il governo tanzano non interferisce molto su queste questioni. I villaggi locali sono considerati realtà autonome. Siamo stati accolti bene dalle persone del posto. Sono molto di cuore. Loro ora ci aspettano, sono felici di vedere i volontari. Soprattutto i bambini, che quando ci vedono arrivare ci corrono incontro, vogliono essere presi in braccio, sono curiosi e interagiscono molto».
Com’è cambiata la vita di questi bambini e che impatto ha avuto il vostro intervento sulle comunità locali?
«Per quattro ore al giorno, bambini dai 3 ai 7 anni, prima per strada, possono adesso imparare. A scuola sono garantite l’acqua e la merenda. Abbiamo lavorato proprio di recente alla costruzione di un pozzo in una delle scuole, che normalmente conservano l’acqua in grandi cisterne. Inoltre, i bambini parlano swahili, ma qui familiarizzano anche con l’inglese, fondamentale per il turismo. Sono aumentate le iscrizioni ai licei. E stiamo lavorando ad altri progetti più professionalizzanti: l’idea è di seguire i bambini nella formazione successiva, creando un serbatoio di talenti. Anche il lavoro ne ha giovato: tutti i docenti sono persone del posto, pagate da noi. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato e diversi insegnanti sono stati assunti dal Ministero tanzano, diventando dipendenti pubblici».
Hai partecipato come medico al progetto Elena, in partnership con Zanzibar Outreach Program. Ci racconti la tua esperienza?
«Il progetto unisce medici tanzani e stranieri con diverse specializzazioni, che si occupano di volontariato medico. Io ho partecipato al progetto come chirurgo orale, visitando tutti i villaggi. Lì la situazione sanitaria è drammatica. Spesso dormono su materassi sporchi buttati a terra, in case senza pavimento, non di rado aperte, con i tetti fatti in lamiera o foglie. Quando piove, entra l’acqua e sono costretti a spostarsi. L’assistenza sanitaria è fornita da un’unica struttura che garantisce le cure di base gratuite, ma non riesce a ottemperare a tutte le richieste che arrivano – specie a seguito dell’emergenza Covid. Senza contare che manca una cultura della prevenzione, com’è facile immaginare… Noi per la prima volta abbiamo portato lo screening del cancro alla prostata e ai polmoni. Il cancro ai polmoni, in particolare, lì è un problema gravissimo: l’assenza di luce e gas li costringe ad accendere quotidianamente fuochi per cucinare, lampade al cherosene. Tutti i giorni ne respirano i fumi in casa, anche i bambini appena nati».
A proposito di sanità, com’è stata gestita l’emergenza Covid-19?
«Lì non c’è la cultura del vaccino. L’ex Presidente, Magufuli, ha negato a spada tratta l’esistenza del Covid. Diceva alle persone di non vaccinarsi, di non curarsi, di non mettere le mascherine, perché il Covid è tutta una baggianata. Ma, durante l’apice della seconda ondata, è morto proprio a causa di polmonite interstiziale da Covid-19. Questa cosa è ancora negata dai familiari e dai sostenitori. Ora, lo ha rimpiazzato la Vicepresidente, Samia Suluhu Hassan: la prima donna a capo di un contesto così maschilista e sessista. Lei sta gestendo la situazione in maniera diversa, c’è più attenzione: iniziano a essere distribuiti dispenser, ci si lava le mani, c’è più istruzione sull’igiene da tenere per prevenire il diffondersi di focolai. Anche se l’obbligo di mascherina e vaccino non c’è ancora. Basti pensare che hanno fatto circa 1000 vaccini su una popolazione di 350mila abitanti…».
Da cosa credi dipenda questo negazionismo esasperato?
«Il discorso è complesso. Probabilmente, evitano di ammettere l’esistenza del Covid perché altrimenti perderebbero una fetta di turismo molto importante. L’economia zanzibariana si basa principalmente sul turismo, mentre l’import-export è veramente molto modesto».
Come si procaccia il cibo chi, lontano dalla costa, non può vivere di turismo? La loro è un’economia autosufficiente?
«Sì, per quanto riescono. I più fortunati hanno taxi o piccole attività, ma sono soprattutto stranieri. Alcuni sono proprietari di pascoli da cui ricavano latte e carne. Alcune donne raccolgono le alghe dal fondale marino; queste vengono essiccate e rivendute per la produzione di creme e cosmetici, ma a loro va solo una piccola percentuale. Vivono anche di pesca: mi è capitato di vedere intere famiglie sfamarsi con pescetti di 100 grammi. Questo genera forti problemi di malnutrizione…».
Un altro problema che il primo mondo contribuisce a creare con la pesca intensiva. Vengono depredate aree vitali per le comunità locali, che con la loro pesca sostenibile non riescono a competere contro i colossi industriali. Oltre a queste, quali sono le immagini che ti hanno colpito di più?
«La loro cultura è musulmana. Si vedono bambine molto piccole, anche a 3 anni, coi veli. Questo può colpire chi appartiene a una cultura molto diversa come la nostra. Ci sono scuole di culto dove a 3 anni si insegna già il Corano. Ma è un islamismo più moderato. Mi ha colpito vedere bambini di 3 o 4 anni con due taniche da 5 litri sulle spalle trasportarla per chilometri fino a casa, perché è l’unico modo per fare una doccia, o cucinare, bere. Vedi situazioni in cui i bambini non hanno nulla da mangiare, stringono nelle mani caramelle sciolte avvolte nella plastica e le succhiano mangiando anche parti di quella plastica. Vedi persone che non chiedono nulla, ma avrebbero bisogno di tantissime cose».
Cosa deve fare chi vuole dare una mano?
«Sicuramente donare, tramite il nostro sito e il 5×1000. I nostri progetti richiedono un grande investimento di fondi, che sarebbe stato impossibile senza la generosità di chi ci ha seguito e degli stessi fondatori. Chi vuole può partecipare anche come volontario, e avere così la speranza di partire per agire in modo concreto anche sul posto».
Un’ultima domanda. Hai portato cure e assistenza lì dove manca persino ciò che diamo per scontato. Ma c’è qualcosa che hai ricevuto in prima persona? A tuo avviso, c’è qualcosa che il nostro Occidente, così sviluppato, così “avanti”, può imparare da chi ci sembra rimasto indietro?
«Quando vedi fenomeni migratori come quello che sta investendo l’Afghanistan capisci che non derivano dal desiderio di trovare la bella vita, ma dall’impossibilità di vivere in certe condizioni… Nel mio caso, vedere bambini che dormono a terra, tra rifiuti ed escrementi, che dividono in cinque pesciolini di 100 o 200 grammi, capisci quanto qui ci sia tanta cultura dello spreco, del non accontentarsi mai. Meno hai e meno vuoi; più hai e più pretendi. La lezione che ho imparato io è accontentarmi e apprezzare quello che ho; aiutare chi posso, sempre. Perché c’è sempre qualcosa da fare. E la situazione è destinata a peggiorare… Questo ci fa capire anche quanto sia importante limitare crisi climatiche, rispettare l’ambiente, per evitare che al disastro si aggiunga disastro. Viviamo in un equilibrio che va preservato».