The Falling Man. Testa in giù, camicia bianca, le mani lungo i fianchi. Di quell’11 settembre 2001 è questa l’immagine che più ci portiamo dietro. L’uomo che cade. La sinistra quiete di uno scatto dall’inferno. Allo stesso modo, tra vent’anni, della presa di Kabul, in Afghanistan, ricorderemo altri uomini cadere. Non sapremo com’erano vestiti o quale fosse la posizione delle loro gambe, se anch’esse andassero a formare come un angolo o se scalciassero nel tentativo di rincorrere il cielo. Sapremo, però, quanto grande fosse la loro disperazione. E quanto corresponsabile il pietismo nei nostri occhi.
Sono trascorsi vent’anni da quel mattino di inizio settembre, quando due aerei trafissero le Torri Gemelle cambiando drasticamente la storia. Vent’anni dalla rapidità con cui gli eventi si susseguirono senza che ne potessimo comprendere la portata. Sapevamo soltanto che qualcosa di grosso stava accadendo, ma quanto grosso – forse – non lo sappiamo nemmeno adesso. Adesso che, ognuno di noi, interrogato, saprebbe dire dov’era o cosa stesse facendo. Adesso che ritorna quella maledetta data, 11 settembre 2001, e ancora ci chiediamo il perché.
Erano le 10:28 (ora locale) quando 3mila vite umane si spensero a New York. Le 20:30 quando il Presidente Bush dichiarò guerra all’Afghanistan, il Paese reo – a suo dire – di sostenere e ospitare l’artefice del terribile attentato, ma dal cognome amico: Osama bin Laden. Da allora, la sua lunga barba è diventata il simbolo del nemico pubblico numero uno. Uno come l’uomo incolpato – ma mai processato – per il quale a pagare è stato più di un intero popolo: «Il governo americano non farà distinzioni fra i terroristi che hanno commesso questi atti e coloro che li ospitano», pronunciò l’inquilino della Casa Bianca nel suo discorso alla nazione. E, in effetti, di distinzioni, in quella che viene annoverata come la guerra dei vent’anni, il governo americano non ne ha fatta alcuna: 4 milioni di profughi, 241mila morti (in prevalenza civili), 2300 miliardi di dollari spesi. Con un ventesimo di quei soldi, diceva Gino Strada, l’Afghanistan oggi sarebbe una nuova Svizzera. Invece, è un Paese distrutto, tossicodipendente, stanco della guerra, eternamente alla mercé di un qualche invasore. Anche prima di Osama bin Laden.
L’Afghanistan si trova sulla principale rotta terrestre tra Iran, Asia Centrale e India. La sua, dunque, è una posizione strategica che, da sempre, fa gola ai signori della guerra. E proprio le invasioni costanti lo rendono un Paese notoriamente difficile da governare, diviso tra le milizie che combattono fra loro soprattutto per il controllo della produzione di oppio e per la creazione di impianti per raffinare il prodotto in eroina (oltre il 90% di quella in commercio su scala mondiale viene da qui). Potenza dopo potenza, nazione dopo nazione, nessuno è riuscito a pacificare quella che oggi è soprannominata la Tomba degli imperi, anche se qualche volta qualcuno – e per poco– è parso trionfare.
Già nel diciannovesimo secolo, l’espressione il grande gioco era usata per descrivere la rivalità tra i britannici e i russi per ottenere potere e influenza in Afghanistan e nelle zone limitrofe. Allo stesso tavolo, nel 1979, sedette poi l’Unione Sovietica che invase il Paese a Natale, scuotendo le coscienze d’Occidente – che, intanto, lasciavano che a finanziare la lotta ai comunisti fosse la stessa famiglia bin Laden (di cui gli americani erano soci). Infine, nel 2001, gli USA decisero che toccasse a loro, che finalmente fosse arrivato il momento di esportare un po’ di sana democrazia: scoprimmo così i santuari di al-Qaeda, i taleban, le donne costrette a vivere tra ignoranza e sottomissione. Un mondo fino ad allora volutamente trascurato che, di colpo, complice la mediaticità delle Twin Towers, ci toglieva il sonno. Responsabili, da buoni occidentali, di un futuro di diritti e umanità. Come potesse una guerra vincerne un’altra resta ancora un mistero.
Da allora, dicevamo, sono trascorsi vent’anni. Osama bin Laden è stato ucciso in Pakistan nel maggio del 2011, quando nello Studio Ovale c’era il democratico Barack Obama. Dal 2008, sotto la sua presidenza (a fargli da Vice un tale Joe Biden), l’impegno militare USA si è raddoppiato arrivando, nel 2010, a circa 100mila soldati americani su territorio afghano. L’inquilino di Pennsylvania Avenue è stato forgiato del Premio Nobel per la Pace, lui che ha portato gli Stati Uniti sul tetto del mondo in quanto a utilizzo dei droni, le cosiddette bombe intelligenti, quelle che per ogni bersaglio centrato – o mancato – mietono centinaia di vittime innocenti.
Da quel momento, dalla morte del leader di al-Qaeda, di Afghanistan si è detto davvero poco. Di colpo, la guerra ai talebani è diventata politicamente irrilevante. Il conflitto più lungo della storia americana, quello costato più di 2mila miliardi di dollari, è stato messo tra parentesi: Donald Trump non ne ha parlato nel suo discorso di accettazione. Non ne ha parlato durante i suoi dibattiti con Hillary Clinton. Non ne ha parlato nel suo discorso inaugurale. E non è stato il solo.
A livello internazionale, infatti, è successo più o meno lo stesso: l’Afghanistan è sparito dal dibattito pubblico e politico, eppure Germania, Gran Bretagna, Italia ci hanno rimesso, secondo stime ufficiali, rispettivamente trenta, diciannove e dieci miliardi di euro, la maggior parte nella formazione dell’esercito locale. Nel nostro Paese, dove si sono alternati governi di ogni fazione, tecnici e persino misti, e dove ben tre Presidenti della Repubblica hanno avallato una guerra anticostituzionale, nessuno si è posto il problema di un conflitto che sin dall’inizio tutti sapevano che sarebbe andato perso. Anzi, ogni anno – come a giugno scorso –, hanno convintamente rifinanziato la missione. Tutti, pure quelli che oggi parlano di corridoi umanitari e si sbattono il petto, mentre sventolano la bandiera israeliana e lodano gli Emirati Arabi. Tutti, pure quelli che si rammaricano per le donne. Ma i numeri raccontano altro: negli ultimi dodici anni, in Europa, di cittadine afghane adulte cui è stato negato lo status di rifugiate sono 30mila, 21mila le bambine, 4mila le ragazze tra i 14 e i 17 anni. Il 24% di queste donne è già stato rimpatriato. Del restante 76% scopriremo adesso cosa vorranno farne i potenti della Terra, quelli che pongono e dispongono in base all’indice di gradimento.
Del resto, per gli stessi, per i signori della guerra, l’assenza di discussione in merito è stata una fortuna: dal 2014, da quando cioè la maggior parte delle truppe statunitensi ha iniziato a lasciare il Paese, i talebani hanno rapidamente guadagnato terreno e nessuno se n’è accorto. Già nel febbraio 2017, il governo locale controllava appena il 52% dei distretti. Nello stesso anno si registrava il massimo storico stimato per la produzione di oppio, 9900 tonnellate, 1.4 miliardi di dollari (6.6 miliardi se si tiene conto del valore di tutte le droghe). Era solo questione di tempo, dunque: lo sapeva Trump, quando a pochi mesi dalla sua disfatta firmava l’Accordo di Doha, e lo sapeva Biden, che assicurava il ritiro dei suoi uomini entro il 31 agosto. Entrambi ufficialmente fedeli all’idea secondo cui i soldi americani non debbano essere utilizzati per costruire un mondo migliore, ma in realtà consapevoli che, come in Vietnam, non sarebbero usciti vincitori.
Credere che l’Afghanistan e Kabul siano cadute in una settimana è piuttosto offensivo, un cattivo servizio alla ricerca della verità. La narrazione semplicistica di una vicenda che i libri non riporteranno, ma che va cercata negli interstizi della Storia con la maiuscola: Stati Uniti e alleati hanno sempre saputo che quella afghana sarebbe stata una partita persa, così l’hanno giocata finché hanno potuto, finché gli interessi non sono cambiati, finché nuovi progetti e nuove guerre non sono parse, forse, più giustificabili. In fondo, nessuno ha mai veramente voluto combattere i talebani e gli accordi ne sono la più schiacciante prova: non una ritirata, bensì una sorta di alleanza. Ad ammetterlo – in maniera indiretta – fu persino il generale Franks, il primo a coordinare le truppe di terra in Afghanistan: «Non siamo una task force antidroga. Questa non è la nostra missione», dichiarò lanciando un messaggio inequivocabile ai nemici. Era il 2002. Nella lista nera del Pentagono, scriveva il New York Times sette anni dopo, tra i trafficanti da arrestare non c’erano gli uomini schieratisi a favore degli invasori a stelle e strisce. Quelli che in patria avrebbero consumato – e ancora consumano – la droga là prodotta. In Europa, invece, il mercato si muove tra UK e Italia, e non è un caso che siano gli stessi Paesi dove il gruppo bin Laden gestisce tutt’oggi un capitale di quasi 5 miliardi di dollari (dato 2018).
In questi vent’anni, i talebani hanno guadagnato oltre 120 miliardi grazie alla droga. Gli Stati Uniti, che Biden dice non possono fare la differenza, ne hanno spesi molti di più per cacciarli dal Paese: più di quanto sia costata la ricostruzione del Vecchio Continente dopo la Seconda guerra mondiale. Eppure, non abbastanza per fermare quelli che, nell’immaginario comune, sono guerriglieri dal capo coperto e qualche arma arrabattata, niente a che vedere con il marine eroe tutto d’un pezzo. Più di qualcosa, insomma, sembra non tornare: «Abbiamo dato loro ogni opportunità per determinare il proprio futuro. Non potevamo dare loro la volontà di lottare per quel futuro», ha continuato il 46esimo Presidente USA. Emergency e le tante organizzazioni non governative che davvero hanno dato ogni opportunità al popolo afghano sono pronte a smentire.
Che a soccombere siano ancora le donne, i bambini, gli uomini disperati attaccati alla carlinga di un aereo è soltanto un danno collaterale. I taleban – e i loro di alleati: Russia, India, Pakistan, Cina – lo sanno bene e si godono il momento. I primi, soprattutto, che adesso mostrano un volto più aperto mentre sparano sulla folla, e da sempre beneficiano del dollaro. Dopo il commercio di oppio, infatti, la seconda fonte di reddito dei talebani è il contribuente americano che invia miliardi di armi e forniture all’esercito afghano che poi finiscono – ufficiosamente – nelle mani dei terroristi che, a loro volta, finanziano lo Zio Sam. E ancora ci si chiede come abbiano potuto arrendersi, senza combattere, i soldati da loro addestrati. E come il Pentagono, che alle 16 dell’11 settembre sapeva già con certezza chi e dove fosse l’attentatore delle Torri Gemelle, non riscontrasse alcuna minaccia imminente nei giorni precedenti l’arrivo dei taleban nella capitale.
Restano tre, rileva la BBC, le ambasciate che continuano a lavorare normalmente in Afghanistan dopo la presa di Kabul: quelle di Cina, Russia e Pakistan. D’altro canto, non esiste insurrezione che non sia determinata da un più o meno silenzioso sostegno esterno. E mentre il Presidente Biden si dice convinto di aver preso la decisione giusta – perché gli americani non devono morire in una guerra che a Kabul non combattono (4 milioni di profughi e centinaia di migliaia di civili morti non contano più) –, Pechino partecipa al grande gioco fornendo assistenza economica e commerciale e consulenza diplomatica. Nessuna arma. L’Afghanistan, si sa, è terra d’oro, la Cina contende il primato agli Stati Uniti, al confine – lì dove resistono gli Uiguri – è necessaria la calma. Soprattutto ora, che si affaccia pure Teheran.
Lo scacchiere del mondo, in questi giorni, si sta ridisegnando e a piegarsi sono sempre gli stessi. Quelli che di qui a breve, in senso dispregiativo, chiameremo immigrati, quelli che nessuno vorrà – Ankara e Atene stanno già costruendo gli ennesimi muri al confine –, quelli che quando i riflettori saranno puntati altrove, l’Afghanistan piomberà nell’ora più buia che ha visto luce soprattutto nelle notti di bombe. Certo, gli USA ne escono politicamente indeboliti. Eppure, si fatica a credere che sia del tutto casuale. Che non fosse un altro danno collaterale.
E, allora, anziché concentrarsi sul blame game, sul gioco della colpa, come dopo il Vietnam o sul fallimento della più millantata democrazia di sempre, vent’anni dopo è necessario riavvolgere il nastro e guardare gli stessi avvenimenti da un’altra prospettiva, più lucida e persino meno emotiva. Ricordarsi di quegli aerei e tentare di ricostruire le undici ore successive, quelle che vanno dall’uomo che cade a Bush che dichiara guerra. Dal crollo del World Trade Center alle mamme che affidano i loro piccoli ai soldati al di là del filo spinato di un aeroporto sperando di metterli in salvo.
In pochi, tra qualche decennio, rammenteranno dov’erano mentre Kabul tornava in mano ai talebani nel Ferragosto rovente di un’estate senza precedenti. Eppure, le ombre di chi si lanciò dalle Torri Gemelle si sovrappongono, oggi, ai corpi in caduta libera in fuga dal neo costituito Emirato Islamico dell’Afghanistan. Non resta, dunque, che riavvolgere il nastro, seguire l’odore dei soldi e rispondere a una domanda: perché?