Tutto quello che un uomo dovrebbe essere. Tutto, e molto di più. Gino Strada se n’è andato in un venerdì d’agosto, nel giorno in cui su La Stampa era tornato a raccontare la guerra, l’Afghanistan, quella terra nella quale aveva vissuto per sette lunghi anni. Nella terra dove era arrivato, “clandestino”, mentre tutti, dalle Nazioni Unite alla Croce Rossa, annunciavano il loro rientro per lasciare campo libero alle mine giocattolo occidentali, ordigni così simili a piccoli pappagalli verdi da trarre i bambini in inganno: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Danni collaterali, li avrebbe chiamati qualcuno. Non lui, non Gino Strada.
Nel 2001, quando la guerra stava per diventare umanitaria, era corso lì, in Afghanistan e già poneva domande a cui la storia avrebbe risposto presto, dandogli ragione. E così in Iraq, in Sierra Leone, in Sudan, in Eritrea, in Etiopia, nella Repubblica Centrafricana, in Uganda, Ruanda, America Latina. Ovunque, in tutto il pianeta, per curare gli altri, forse persino se stesso e questa nostra sciagurata umanità. Se n’è andato oggi Gino Strada, che – strano scherzo del destino – vent’anni, in Afghanistan, non sembrano passati se non negli occhi dei tanti civili innocenti, delle facciate dei palazzi distrutti, delle fosse senza nome, nel buio di quei bambini che ha aiutato a diventare grandi, mentre l’uomo si faceva sempre più piccolo.
Non credere una parola, quando diranno che hanno “sconfitto il terrorismo”. […] Non credere una parola, ogni volta che cercheranno di spiegarti come sarà bella la guerra futura, tecnologica, selettiva, “umanitaria”. Sarà solo un altro carico di morte e di miserie umane.
Se n’è andato, il fondatore di Emergency, raccontando gli ultimi – i primi per lui – dopo una vita a loro dedicata, spesa, giorno dopo giorno, salvandone almeno altre 11 milioni in 19 Paesi del mondo. Senza mai tirarsi indietro. Senza mai rinunciare. Senza mai vendersi. Un medico così fedele al giuramento di Ippocrate da farne il faro dei propri passi e di quelli di tutti noi che in lui e a lui abbiamo creduto, incapaci, forse, persino di capire la fortuna di essergli contemporanei. Se n’è andato, Gino Strada, e qualcosa si è come rotto per sempre. Naufraghi, quali siamo, su una zattera alla deriva.
Non ho visto giustizia in questi mesi, né pietà, non ho visto ragione né umanità. Forse anche per questo ho bisogno di casa, scriveva nelle sue lunghe notti afghane. E casa, per lui, era ovunque ci fosse qualcuno da curare, da accogliere, da amare perché, diceva, se uno qualsiasi di noi esseri umani sta in questo momento soffrendo, è cosa che ci riguarda tutti. Ignorare la sofferenza di un uomo è sempre un atto di violenza, e tra i più vigliacchi. Una lezione che rimanda a un altro medico, a un’altra storia, a un’altra rivoluzione. Entrambi capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo. Entrambi venuti a mancare nell’amore di un ideale. Entrambi messi in croce in vita e, purtroppo, anche in morte. Empatici. Rivoluzionari. Laici. Eppure, così estremamente fedeli alla parola di Dio. Quantomeno, alla mia idea della parola di Dio.
Chi mi conosce sa che Gino Strada è stato, per me, un mito, sin da bambina. Il suo volto, la sua voce, il suo modo dissacrante e sincero di denunciare l’orrore del mondo hanno segnato la mia crescita, le hanno dato una direzione, hanno definito l’adulta che avrei voluto diventare. Convinta, anche io, che i diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi. Quelli che a Gino Strada non sono mai piaciuti: lontano dalla politica istituzionale, dai potenti, dagli uomini della guerra che con la sua azione ha combattuto più di tante inutili parole. Le stesse che in queste ore si stanno sprecando, persino tra i detrattori.
Perché Gino Strada, che adesso ce l’avrebbe con tutti noi per le troppe attenzioni a lui dedicate, anziché all’impegno della difesa dei più deboli, dei più poveri, della condanna di quei nomi e cognomi che hanno fatto della guerra una pratica normale, non avrebbe mai potuto andarsene in silenzio, mai come non lo è stato nei suoi anni di medico, attivista, volontario dell’umanità. Di uomo più uomo di troppi altri. L’ultimo laico più vicino a Dio.
Se n’è andato, Gino Strada, mentre Cecilia, la sua unica, straordinaria, figlia, ne portava avanti la missione, in quel mare diventato cimitero che lui stesso ha denunciato negli anni. Anche se lo avesse saputo, non le avrebbe mai chiesto di tornare: Non ero con lui, ma di tutti i posti dove avrei potuto essere… beh, ero qui con la ResQ – People saving people a salvare vite. È quello che mi hanno insegnato mio padre e mia madre.
[…] Ci siamo visti l’ultima volta un paio di settimane fa, poco prima che mi imbarcassi sulla nave con la quale oggi abbiamo salvato 85 vite umane. Mentre lui moriva, io stavo facendo esattamente quello che papà mi ha insegnato a fare, da quando sono nata. Sapevamo entrambi che il nostro è un mestiere pericoloso per cui ci sarebbe stata l’eventualità di non potersi rivedere. Ma Gino diceva sempre che quando hai la possibilità di aiutare, devi farlo perché è giusto. E devi farlo subito. Lui lo ha fatto, e subito, ogni volta che ha potuto. Forse, anche quando era troppo stanco. Perché il mondo, questo mondo, dovrebbe essere così: chi ha bisogno va aiutato.
Se n’è andato Gino Strada. Ma il suo progetto, che non voleva si chiamasse sogno, deve restare il progetto di noi tutti. Di chi resta, di chi lo ha amato, di chi a lui deve la vita, la cura di una ferita fisica o etica. Di chi a lui ha guardato come a un eroe, un mito, un’entità troppo umana per esserlo davvero.
Tutto quello che un uomo dovrebbe essere. Tutto, e molto più. Gino Strada era questo. Gino Strada è questo: un modo di abitare il mondo. E noi proveremo a esserne degni. Grazie Gino, grazie per l’umanità a cui hai dato un volto, un nome, una Strada. Grazie per averci insegnato l’Amore.
Non ti diremo mai addio.