Il livello di comunicazione di governo e media sull’evoluzione della pandemia da SARS-CoV2 continua a essere molto carente. Senza un’informazione adeguata e comprensibile che stimoli la responsabilizzazione e la partecipazione dei cittadini, i provvedimenti presi possono cadere nel vuoto della cronica mancanza di controlli e dell’anarchia regionale che caratterizza questo Paese.
Una cosa che dovrebbe con forza essere chiarita è che noi medici, inclusi gli esperti, stiamo imparando in corso d’opera e che, quindi, l’errore di valutazione è in agguato. Ma non si tratta quasi mai di veri e propri errori, quanto di modifiche delle raccomandazioni basate sull’emergere di nuove evidenze. Perché tutti, inclusi gli esperti, stiamo ampliando quotidianamente le nostre conoscenze. Perciò, essere categorici nelle affermazioni è un atteggiamento che finisce per rivelarsi un boomerang sia sul piano della credibilità di chi parla, sia sul piano del coinvolgimento responsabile di chi ci ascolta, quando poi la realtà si affretta a smentire.
Qui vorrei richiamare l’attenzione su due questioni molto serie: l’aumento dei contagi e la possibilità che i vaccinati possano trasmettere la malattia.
La questione che pongo è quanto l’equivalenza contagio-infezione possa essere sostenibile in un contesto in cui più del 50% dei soggetti è vaccinato – dove per infezione si intende un processo caratterizzato da penetrazione e moltiplicazione, nei tessuti viventi, di microrganismi patogeni unicellulari (batteri, miceti, protozoi) o da virus, secondo la definizione che trovate anche nel Dizionario di Medicina della Treccani.
È chiaro che i tamponi sono sempre effettuati su base volontaria e quindi è molto più probabile che a un drive-in si presenti un non vaccinato piuttosto che un vaccinato. Dunque, l’aumento dei contagi dovrebbe essere sempre commisurato alla tipologia della popolazione sottoposta a test. È anche chiaro che il contagio è possibile pure in un vaccinato perché, naturalmente, nelle condizioni ambientali adeguate, anche un individuo che abbia completato il suo ciclo vaccinale può entrare in contatto con il virus e inspirarlo. Se il tampone viene fatto nelle vicinanze del contatto con il virus, si può trovare l’RNA virale, perché il virus permane attivo per un certo periodo di tempo persino su materiale inerte (plastica, metallo, cartone). Ma quel soggetto nel quale è stato trovato l’RNA virale può essere considerato infetto? Cioè, basta la presenza del virus nel tampone per classificarlo come portatore dell’infezione? Io credo di no.
La stragrande maggioranza delle persone vaccinate che si porta dietro il virus per qualche giorno non si infetterà, né si ammalerà, proprio perché vaccinata. Dunque, un contagiato vaccinato non è necessariamente un infetto. Può essere cioè un portatore sano. Però, da portatore sano, può potenzialmente andare in giro a seminare virus a sua volta: uno starnuto non protetto, ad esempio, diffonderà particelle di aerosol che possono contenere il virus, ma saranno abbastanza da causare infezioni in chi dovesse contagiarsi?
Benché manchino studi specifici sull’argomento, sulla base di quanto conosciamo sui meccanismi delle infezioni virali, perché un virus inalato sviluppi l’infezione, e nella maggior parte dei casi la malattia, nello specifico il COVID-19, è necessario che entri nelle cellule del suo ospite per riprodursi. Ma può il virus inalato da un vaccinato entrare nelle sue cellule dal momento che il vaccino è stato concepito proprio per inibire questo ingresso? Lo scopo dei vaccini anti SARS-CoV2 è esattamente quello di sottrarre al virus la possibilità di replicarsi, inibendo l’ingresso nelle cellule, possibilità importantissima per poter effettivamente ed efficacemente disseminare la malattia. Se il virus non entra nella cellula non si può sviluppare infezione.
Da questa semplice considerazione da non esperto, ma solo da medico, si può desumere un’altra conseguenza che non ha ancora riscontro certo nella letteratura: dal momento che il virus può replicarsi solo se entra in una cellula, le possibilità che un vaccinato, una volta contagiato, possa a sua volta trasmetterlo ad altri sono chiaramente scarse, a meno che l’azione del vaccino sia stata carente o nulla (possibile) o non si sia inalata una tale carica virale da poter essere trasmessa di per sé ad altri, nelle circostanze ambientali favorevoli e nell’assenza di precauzione personale sufficiente. Perché, in base a quello che sto imparando, ci vogliono tre condizioni per essere contagiati:
- sufficiente carica virale (che nel caso della variante δ è verosimilmente minore rispetto al ceppo iniziale α). È improbabile, ma certamente non impossibile, che si sia inspirata una tale carica virale capace di essere ritrasmessa in autonomia, diciamo, senza necessità per il virus di invadere le cellule del suo ospite temporaneo per riprodursi e raggiungere una carica virale sufficiente a diffondere l’infezione, cosa che gli è impedito dal vaccino nella stragrande maggioranza dei (ma non in tutti) vaccinati;
- tempo di esposizione, certo anche funzione della carica virale trasmessa. Ma sicuramente non bastano pochi secondi e nemmeno pochi minuti. L’esposizione deve essere sufficientemente prolungata. A parità di carica virale è verosimile che il tempo di esposizione necessario a infettarsi sia minore per la variante δ che per quella α;
- scarsa circolazione dell’aria ambientale che favorisca la persistenza dell’aerosol. È questo il motivo per cui in ambienti chiusi, specialmente se poco ventilati, l’obbligo della mascherina dovrebbe essere assoluto per tutti. Ma è anche la ragione che rende inutile l’obbligo di indossarla all’aperto o sulla spiaggia, quando la distanza interpersonale è sufficiente (secondo me 2 metri) e non sussistano le condizioni per una prolungata esposizione, come suggerito dall’inizio della pandemia dal CDC americano.
Per concludere, credo che la combinazione di almeno due di questi tre fattori sia critica per l’efficiente trasferimento del virus da persona a persona. Penso anche che dovrebbe essere sviluppato un algoritmo che metta insieme queste tre variabili in modo da generare una scala di probabilità basata su modelli matematici. Ed è quanto mai importante mettersi a lavorare su questo fronte, per chi abbia la competenza per farlo, perché la variante δ è un campanello di allarme arancione: vi saranno altre mutazioni causate dalla circolazione virale nella popolazione no vax e, specialmente, dalla diffusione incontrollata del virus nelle aree non raggiunte dai piani vaccinali, mutazioni che potrebbero essere sempre più pericolose fino a bypassare l’efficacia del vaccino.
Ricerche recenti hanno dimostrato che la famosa proteina S che si attacca alle cellule e ne consente al virus l’ingresso è, in realtà, in gran parte nascosta al nostro sistema immunitario da una specie di corazza fatta da alcuni composti che riescono a renderla quasi invisibile, esponendone giusto un pezzettino che è quello che si attacca al recettore sulla cellula (How the coronavirus infects cells — and why Delta is so dangerous (nature.com)). Il vaccino, ma anche la malattia, prepara il nostro sistema a riconoscere il nemico anche se è in gran parte mascherato, ma è evidente che le mutazioni della proteina S renderanno il virus sempre più efficiente. E una volta dentro le cellule, il virus sa nascondersi molto bene, tutto diventa più complicato e le conoscenze, benché in rapida espansione, sono limitate.
Già la variante δ, considerata più letale delle altre – ma è difficile dirlo con certezza perché ovviamente la suscettibilità nella popolazione generale è stata modificata dai piani vaccinali –, insieme con il miglioramento delle sue batterie (la proteina S), ha demolito un altro degli strumenti che anche in Italia abbiamo cercato – in modo spesso maldestro e finché è stato possibile – di implementare, il tracciamento, perché il tempo di incubazione si è ridotto a pochi giorni, rendendolo quasi impossibile.
Insomma, la guerra – a molti non piace il termine, ma di questo si tratta – è lungi dall’essere vinta e finita.
Il CDC di Atlanta, Georgia (US), raccomanda ora anche ai vaccinati di indossare la mascherina nei luoghi chiusi (When You’ve Been Fully Vaccinated | CDC), cambiando le indicazioni che aveva dato all’inizio di luglio e il WHO suggerisce di indossare la mascherina anche all’aperto in luoghi particolarmente affollati. A me sembrano suggerimenti dettati dall’evidenza e dal buon senso. Mano a mano che impariamo, le indicazioni possono ovviamente cambiare, ma quel che il pubblico deve sapere è che quando cambiano è perché ci sono nuove evidenze e stiamo migliorando la nostra comprensione. Tutti.
In base a quel che ho scritto, il rischio di infezione e di trasmissione della malattia rimane molto più basso nei vaccinati, ma certamente non inesistente. Quindi, indossare la mascherina nelle occasioni in cui il contagio può essere favorito da circostanze ambientali a esso favorevoli, rimane una cosa intelligente da fare.
Contributo a cura del Prof. Giovanni de Simone, già Ordinario di Medicina Interna dell’Università Federico II di Napoli e Adjunct Associate Professor presso il Weill Cornell Medicine.
Lei però NON distingue tra varianti. Un vaccinato molto più probabilmente favorirà lo sviluppo di varianti e ne favorirà il contagio su altri, vaccinati e non. Trascurare ciò, rende applicabile il Suo ragionamento solo su forme virali già superate.