A furia di correre dietro le ultime tendenze, siamo inciampati. Se il giallo “ottimista” è la nuance annunciata per il 2021, i retroscena sono decisamente più grigi: l’industria tessile causa circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua, con una spesa idrica incalcolabile, considerando che per produrre una sola t-shirt servono più di duemila litri d’acqua. Tra discariche ed emissioni, non si salva nessun elemento. Produzione e trasporti rendono il settore moda, tra abbigliamento e calzature, responsabile del 10% delle emissioni mondiali di gas a effetto serra. Come se non bastasse, il 35% della microplastica presente in mare è riconducibile ai lavaggi. In particolare, le alte temperature contribuiscono a rilasciare il materiale plastico presente nei tessuti.
L’insostenibile cultura dello spreco inizia a scontrarsi così col desiderio di invertire la rotta. In Italia e all’estero, sono sempre più numerose le imprese che scelgono di investire sul sostenibile. Un esempio virtuoso tiene alto l’orgoglio di un nuovo Made in Italy. Pensata a Milano e partorita a Catania, Orange Fiber mette in pratica il concetto di economia circolare mostrando a tutti il valore degli scarti. Il tessuto innovativo da loro proposto ha un’origine senz’altro singolare: le arance.
Enrica Arena e Adriana Santanocito hanno scoperto la ricchezza nascosta dell’oro liquido siciliano. Dopo la spremitura, infatti, circa il 60% del peso originario viene buttato via. Quello che prima era un sottoprodotto, viene ora ceduto dalle aziende per essere trasformato in cellulosa. Il tessuto che ne deriva può ricordare, in base alla lavorazione, sia la seta che il cotone. Si resta così vicini al mondo della camiceria, senza dimenticare gli amanti del lusso. Ma essere sostenibili, in termini economici, quanto ci costa?
Ricerca, tecnologie innovative e attenzione alla qualità pesano sul bilancio. Un acquisto sostenibile per l’ambiente può non esserlo per il portafogli, e questo non vale solo per l’abbigliamento. Il desiderio di essere green, infatti, si scontra spesso con difficoltà pratiche. In una società diseguale, in cui nemmeno la natura è gratis, essere eco non è sempre una scelta possibile. E se non si ha stabilità, l’unica opzione sostenibile, al massimo, è la scelta obbligata del riciclo: dal fratello maggiore a quello minore. Ma è proprio dietro un prezzo troppo basso che, spesso, si nascondono le più grandi insidie. Vestiti poco costosi significano quasi sempre materiali scadenti e manodopera a basso costo. L’equivalenza è inquinamento ambientale e sfruttamento del lavoro umano.
Inoltre, i prodotti più economici sono al centro della dinamica “usa e getta”: alla portata di tutti, facilmente reperibili e disponibili in abbondanza. Di scarsa qualità, si usurano velocemente, necessitando di continuo ricambio. Se non va bene, se è passato di moda, se è rovinato, si getta. Ma lontano dagli occhi non vuol dire lontano dal pianeta. Lo sanno bene in Kenya, dove l’Occidente esporta ogni anno 140mila tonnellate di vestiti di marca usati rivenduti a basso costo. Ma a essere stracciati non sono solo i prezzi: le condizioni dei capi sono spesso così misere da costringere i commercianti a scartare interi lotti.
I vestiti gettati a cataste lungo le strade vengono bruciati con frequenza, i resti finiscono nei fiumi e le piogge abbondanti contribuiscono a raccogliere stracci fatti di ogni materiale. L’acqua si inquina e non finisce solo nel mare, ma nei rubinetti, nelle case allagate da esondazioni sempre più frequenti. I governi locali non ce la fanno, mentre l’essere umano continua ad autosabotarsi, in un circolo drogato che sembra non avere fine. Così, nel tempo, il vantaggio economico sparisce e la spesa ambientale cresce. Al contrario, sebbene all’inizio la moda sostenibile porti a un esborso più grande, quell’esborso si scopre presto investimento: per un prodotto che non fa male, a sé e all’ambiente, e sopravvive più a lungo.
Nemmeno dare ai vestiti seconda vita è una vera soluzione. Se anche alla prima ne seguissero cento, avremmo solo rimandato lo stesso destino. Non possiamo continuare ad agire come se ad accogliere l’immondizia ci fossero buchi neri. Serve rifondare il mercato su modelli diversi: lo sfruttamento intensivo, di cui spesso abbiamo trattato nel settore alimentare, è il tratto tipico dell’intero impianto produttivo moderno.
Allora, se nulla si distrugge, è necessario porre le basi perché tutto si “ricrei”. Puntare su tessuti biodegradabili, vuol dire rientrare nel ciclo della vita che rinasce. Ripensare l’economia sul modello del ciclo vitale non presuppone solo un cambiamento nel concetto di impresa: è una rivoluzione culturale. Significa cambiare approccio.
La tendenza a ragionare per categorie opacizza l’idea di un unico sistema di cui il tutto fa parte. Anche applicando un piano sul clima di efficacia rivoluzionaria, la mission di un’Europa a impatto zero entro il 2050 resterà mera utopia senza un importante piano di ripresa sociale ed educazione a una scelta consapevole.
L’inquinamento è un problema che ha molte cause: ricerca del profitto a tutti i costi, disinformazione, l’illusione che un problema che non vediamo immediatamente sia un problema che non esiste. Diffondere la consapevolezza significa dare ai consumatori una scelta. Risollevare il tessuto sociale significa permettere di realizzare quella scelta.
Allo stesso modo, non potremo aspettarci niente di rivoluzionario che arrivi dall’alto senza una prepotente forza che spinga dal basso. L’acquirente informato ha la sua responsabilità nel processo. Non è un caso che il consumo di vestiti sia più che raddoppiato negli ultimi quindici anni, mentre la vita di ogni capo si è dimezzata. Ma se il denaro si sposta, anche chi investe cambia direzione.
Ogni giorno, facciamo qualcosa per essere quella leva. Passo dopo passo, tutti insieme e ognuno coi propri gesti, possiamo cambiare direzione.