Questo, senza dubbio, non è un vero diario di bordo. Potrei dire con più onestà che, in realtà, rappresenta il tentativo – forse incoerente, forse inefficace – di conciliare la narrazione del mio viaggio nella città tedesca di Saarbrücken con la lettura del libro Il bel rischio, la trascrizione di una conversazione avvenuta tra il filosofo Michel Foucault e il critico letterario Claude Bonnefoy. Nessuna delle due esperienze, infatti, può essere separata dall’altra, dal momento che entrambe si esprimono indissolubilmente in un polifonico e polimorfo intreccio.
Nelle prime pagine dell’intervista, che ha come compito il disvelamento del rapporto tra Foucault e la scrittura, il filosofo francese ricorda di averne scoperto il piacere in tarda età, in occasione di un lungo soggiorno in Svezia. Fu proprio l’estero a costituire per l’autore la condizione di possibilità per la riabilitazione di un mezzo espressivo in precedenza da lui non giustamente valutato: lo scrivere.
“Ero in Svezia, costretto a parlare o lo svedese che conoscevo malissimo o l’inglese che parlavo con una certa fatica. La mia cattiva conoscenza di queste lingue mi ha impedito per settimane, per mesi e addirittura per anni di dire veramente quello che volevo. Le parole che volevo dire si travestivano, si semplificavano, diventavano come piccole marionette ridicole davanti a me nel momento in cui le pronunciavo. (…) Credo che sia stato questo a farmi venire la voglia di scrivere. Essendomi preclusa la possibilità di parlare, ho scoperto il piacere di scrivere. Fra piacere di scrivere e possibilità di parlare esiste una certa incompatibilità. Dove non è possibile parlare, si scopre il fascino segreto, difficile, un po’ pericoloso, dello scrivere.”
È a partire da questo periodo – forse tradito dalla necessaria decontestualizzazione – che la mia esperienza nel Saarland ha preso realmente vita. Questo viaggio, più di ogni altro, è stato focalizzato sul silenzio, sull’incompiutezza della parola. Trovarsi in una città straniera, posta al confine con la Francia e adagiata sulle sponde del fiume Saar, senza, per altro, avere la capacità di comprendere quasi nulla delle conversazioni dei suoi cittadini, mi ha permesso di inoltrarmi in una realtà nuova in perfetto silenzio. L’itinerario si è, quindi, liberato dalla distrazione della comunicazione e si è fissato sulla contemplazione degli spazi e degli oggetti. Ma cosa mi ha impressionato in Saarbrücken a tal punto da confermare questa mia tensione verso la parola muta e la necessità scrittoria?
Poche cose, senza dubbio, mi hanno incantata come la quiete nei tram di questa città e il colore delle pietre di due sue chiese neogotiche, presenti in punti differenti del centro cittadino, Johanneskirche e St Josef Kirche. I primi appaiono come vetrine silenti della vita urbana, mentre le seconde, con il loro semplice imporsi alla vista dello spettatore, lo obbligano a muovere lo sguardo contemporaneamente sia verso l’alto, come in ogni architettura di ispirazione gotica, che nei piccoli e poetici dettagli della loro conformazione. E, poi, camminare lungo la riva del Saar, rilassarsi nella sicura solitudine notturna delle strade di Saarbrücken, riscoprire il dolce e armonico mosaico etnico della città. Ogni angolo di bellezza è stato scorto in totale silenziosità.
Probabilmente, Michel Foucault e Saarbrücken mi hanno insegnato a viaggiare in silenzio.