È da circa una settimana che è iniziata la raccolta firme per lo svolgimento del referendum riguardante la giustizia richiesto dal Partito Radicale e dalla Lega. Pare che, stando ai primi dati e all’esultanza del leader del Carroccio, abbia avuto un riscontro popolare altissimo. I sei quesiti referendari depositati presso la Corte di Cassazione a inizio giugno riguardano vari aspetti e si inseriscono nel contesto politico in un momento in cui il governo sta cercando di portare avanti una riforma strutturale dei procedimenti penali e civili e della giustizia nel suo complesso, condizione indispensabile per ottenere i finanziamenti del Recovery Fund.
Innanzitutto, con il referendum si chiede la previsione di una responsabilità civile a carico dei magistrati. Attualmente, infatti, la normativa in materia prevede per il cittadino danneggiato la sola possibilità di rivalersi contro lo Stato e non contro il giudice che ha emanato la sentenza. Ancora, si chiede una separazione delle carriere: il magistrato, fin dal suo ingresso nel mondo del lavoro, dovrà decidere se svolgere la funzione requirente (pubblico ministero) o quella giudicante, senza possibilità di modificare la decisione. Anche la Commissione nominata dalla Ministra Cartabia si sta occupando del tema ma, in maniera più cauta e probabilmente saggia, ha proposto solo di ridurre il numero delle volte – da quattro a due – in cui si può effettuare tale passaggio tra carriere.
Altri due quesiti riguardano i magistrati: in particolare, l’obbligo della raccolta firme per candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura – che il referendum chiede di abolire e la commissione per la riforma della Giustizia solo di rimodulare in quanto al numero delle sottoscrizioni – e la valutazione dei magistrati, che in base a quanto sostengono i promotori dovrebbe essere operata anche da soggetti non togati, cui invece al momento non è riconosciuto il diritto di voto all’interno dei consigli giudiziari.
Una tale maggioranza di argomenti rivolti ai giudici ha fatto parlare di referendum sulla magistratura, ma in realtà i quesiti che hanno destato maggiori polemiche – e che probabilmente restituiscono la contraddittorietà alla base dell’unione di forze politiche così diverse – riguardano altro. Da un lato, un quesito che mira a limitare l’istituto della custodia cautelare, ampiamente abusato nel nostro ordinamento, ai soli reati più gravi. Attualmente, l’articolo 274 del Codice di Procedura Penale sancisce di limitare il suo utilizzo alle ipotesi di pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga e pericolo di commissione di gravi delitti. In realtà, tale disposizione è spesso interpretata in maniera molto ampia e così il 30% circa delle persone detenute si trova in stato di custodia cautelare, in un Paese in cui teoricamente il carcere dovrebbe rappresentare solo l’extrema ratio e, invece, vi si ricorre spessissimo senza che sia ancora stata accertata la colpevolezza.
L’altro quesito che ha destato perplessità riguarda invece la Legge Severino, o cosiddetta Legge anti-corruzione: il referendum mira ad abolire la sanzione accessoria dell’incandidabilità e, in particolare, il suo automatismo, lasciando ai giudici la possibilità di valutare il caso concreto. Probabilmente, sono proprio questi ultimi due a rappresentare i quesiti maggiormente garantisti, eppure c’è qualcosa che non torna.
Il leader della Lega Matteo Salvini è accanito promotore del carcere come soluzione a tutti i mali della società, ma si ritrova ora a negarne l’utilità. In qualità di giustizialista, il suo motto è chi sbaglia paga, tuttavia al momento sembra sostenere la non applicazione automatica di una sanzione accessoria, mentre continua la sua campagna a sostegno della legittima difesa domiciliare. Ma ancor più straordinario, si ritrova ad allearsi con chi nega in gran parte l’utilità del carcere e sostiene la legalizzazione delle droghe leggere e la modifica della legge sugli stupefacenti.
A dimostrazione di una tale sorpresa, Giorgia Meloni, leader di Fratelli D’Italia, ha dichiarato che non raccoglierà le firme per i due quesiti incriminati, poiché si lascerebbero liberi spacciatori e delinquenti comuni. Se questa è la posizione della destra nazionale sul tema giustizia e carcere, allora non resta che pensare che quella di Salvini non sia altro che una scelta politica. Egli stesso non sa come sostenere le sue posizioni sull’argomento, se non con vuoti slogan privi di significato, a dimostrazione della propria incompetenza.
L’ex Ministro dell’Interno gioca a fare l’opposizione, quando in realtà il suo partito è nello stesso governo che sta varando la riforma sulla giustizia e i cui contenuti in parte coincidono. Da un lato, dopo aver vissuto l’esperienza di essere mandato a processo, sembra mosso da un accanimento personale nei confronti della magistratura. Dall’altro, cerca di raccogliere consensi da più parti, ricordandoci i tempi in cui, insieme al MoVimento 5 Stelle, attaccava i componenti della casta.
Se alcuni giornali hanno il coraggio di titolare Radicali e Lega uniti per il garantismo, noi sappiamo che non c’è nessuno di più lontano dalla Costituzione e dal garantismo di Salvini, che persegue esclusivamente interessi personali, tradendo le sue stesse affermazioni. Ciò che è chiaro è che si continua a parlare di giustizia come se fosse un argomento da bar, ancora una volta come se i processi si facessero in piazza e non nei tribunali.
Un referendum è una prerogativa costituzionalmente sancita, finalizzata alla più ampia partecipazione al processo democratico. Tuttavia, in casi come questo, diventa una mera strumentalizzazione, per altro non funzionale, poiché i quesiti referendari si concentrano sulla caducazione di singole disposizioni e rischiano di inserirsi in un contesto normativo rivoluzionato a seguito della riforma attesa. Dunque, gli stessi quesiti potrebbero apparire già stantii nel momento in cui vengono proposti, con dispendio inutile di energie e risorse.