Inginocchiati. Denudati. Percossi. Fino a perdere i sensi, a rompere le ossa, a lasciare segni indelebili su una pelle già marchiata dal pregiudizio quotidiano. Questo è quanto continua a emergere dalle indagini riguardanti le violenze perpetrate ai danni dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, nel casertano, quel fatidico 6 aprile 2020. Il giorno precedente, avevano iniziato una battitura pacifica spinti dalla paura del contagio dopo la notizia del primo positivo tra loro. La richiesta di dispositivi di protezione – allora del tutto assenti –, la mancanza dei propri affetti, il terrore di ammalarsi in un luogo in cui il distanziamento sociale ha l’aspetto di una beffa. Il magistrato di sorveglianza accertò che non si fosse trattato di alcuna rivolta: la protesta era rientrata spontaneamente e nulla di grave era accaduto. Almeno fino a quel momento.
Qualche ora dopo, un gruppo di agenti a volto coperto fece irruzione nel reparto Nilo dell’istituto, trascinò i detenuti in corridoio e iniziò quella che è stata ricostruita come una vera e propria mattanza. Per le 52 persone raggiunte a giugno scorso dagli avvisi di garanzia, sono ora state disposte delle misure cautelari, tra cui 8 di custodia cautelare in carcere, 18 di arresti domiciliari, 3 misure cautelari coercitive dell’obbligo di dimora e 23 interdittive della sospensione dell’esercizio del pubblico ufficio.
L’accusa riguarda – a seconda del diverso grado di partecipazione e della posizione ricoperta dai pubblici ufficiali – e in base a quanto si legge nella nota diffusa dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, i delitti di concorso in torture pluriaggravate ai danni di numerosi detenuti, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio.
Quella che è stata definita una perquisizione straordinaria si sta rivelando, infatti, un vero e proprio massacro, una spedizione punitiva per ristabilire quello che si considera il corretto status di sottomissione cui sono tenuti i detenuti. Lo stesso Alfonso Bonafede, Ministro della Giustizia al momento dei fatti, definì quanto avvenuto un semplice ripristino della legalità. Dello stesso avviso sembrano essere i rappresentanti del Sindacato di Polizia Penitenziaria, in particolare il Presidente e il Segretario dell’USPP (Unione Sindacati Polizia Penitenziaria) Giuseppe Moretti e Ciro Auricchio che, oltre a definire le misure cautelari incomprensibili, precisano che l’azione è stata finalizzata a sedare una violentissima rivolta.
Eppure, gli atti della Procura sembrano raccontarci altro: un intervento a sangue freddo, il giorno successivo alla protesta – in un momento in cui questa era già pacificamente rientrata –, a opera di 283 agenti, tra cui gli appartenenti a un apposito corpo, il Gruppo di supporto agli interventi, inviato per l’occasione dal Provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Campania Antonio Fullone, raggiunto anche lui da una misura interdittiva. Ciò che a noi appare incomprensibile, dunque, sono le ragioni che hanno spinto i rappresentanti di un potere pubblico ad agire in un modo così disumano, umiliando chi aveva osato alzare la testa nient’altro che per paura.
Nella nota diffusa, la Procura continua affermando che la perquisizione, in base a quanto emerso dall’impianto di videosorveglianza e dalle stesse comunicazioni intervenute tramite smartphone tra gli agenti coinvolti, non avesse la finalità di cercare alcuno strumento atto all’offesa o altri oggetti non detenibili, ma la reale causale era dare un segnale minimo per riprendersi l’istituto. Scene aberranti, disumane, violente, contrarie alla dignità e al pudore delle persone recluse che hanno avuto, anche attraverso i propri familiari, il coraggio di denunciare, per poi essere costrette a continuare a convivere con i loro aguzzini.
Alle violenze hanno fatto seguito anche numerosi tentativi di depistare le indagini e non fornire il necessario alla verifica di quanto avvenuto, tra cui il rifiuto di consegnare nell’immediato l’impianto di videosorveglianza e il divieto per i detenuti di comunicare con l’esterno e farsi visitare. In seguito al pestaggio, alcuni agenti avevano anche tentato, servendosi della complicità di due medici dell’ASL – a loro volta indagati – di accusare 14 reclusi di lesioni e resistenza a pubblico ufficiale, fatti poi rivelatisi del tutto infondati, così come le fotografie scattate per immortalare oggetti pericolosi mai rinvenuti nelle celle di pernottamento.
La Ministra della Giustizia Marta Cartabia ha sottolineato l’importanza di giungere a un pronto accertamento dei fatti contestati, ma ha anche espresso la sua piena fiducia nei confronti del corpo di polizia penitenziaria. Fermo restando che nessuno è colpevole fino a quando non viene pronunciata una sentenza in tal senso a seguito di un processo celebrato con le dovute garanzie, risulta ai nostri occhi molto difficile esprimere empatia nei confronti di chi non solo ha probabilmente agito in maniera disumana, ma soprattutto si è persino divertito con emoticon e battute crudeli,
Non sempre il mefisto serve ai banditi, per fortuna, scrive uno degli indagati, con tanto di sorrisino sornione, giovandosi del fatto che non sia stato possibile individuare la maggior parte degli agenti coinvolti perché a volto coperto. Ma a essere raccapriccianti sono anche i messaggi precedenti alle violenze: Domani li abbattiamo come i vitelli. Domate il bestiame. Vi aspettiamo in trincea. E il giorno successivo: 4 ore di Inferno per loro. Abbiamo vinto. 350 passati e ripassati. Gestito con strategia eccellente. Abbiamo fatto tagliare la barba a tutti.
Ci riesce ugualmente difficile portare avanti la logica delle mele marce da eliminare, dei rarissimi cattivi con cui siamo obbligati a fare i conti. Tali fatti avvengono perché lo Stato ha costruito un sistema di repressione e sottomissione che lo permette. Perché i luoghi di reclusione sono non luoghi in cui le regole dello Stato di diritto svaniscono e lasciano spazio a brutalità inumane. Perché siamo così convinti di aver individuato correttamente i cattivi da non renderci conto di leggere sui giornali di scontri tra detenuti e agenti.
E invece no, cari giornalisti, non si è trattato di scontri, ma di soprusi, arbitrarie violenze, disumane umiliazioni. Nascoste chissà quante volte sotto vergognosi tappeti. Non sono le misure cautelari a essere incomprensibili, esagerate o vergognose, caro agguerrito Sindacato, in certi momenti sarebbe meglio tacere. E non sopportiamo più, cara Ministra Cartabia, di dover parlare sommessamente di quanto accade nelle carceri, né di avere fiducia, come se si trattasse sempre di un’eccezione.