Come se nulla fosse accaduto. Come se quelle otto vite non fossero mai state degne. Come se fosse plausibile, e naturale, morire mentre si è sotto la custodia dello Stato. senza che nessuno abbia il coraggio di pronunciare quei nomi per giorni, o di chiedersi realmente cosa sia successo. Il fascicolo riguardante otto – delle nove – morti dei detenuti rimasti coinvolti nelle rivolte di quel fatidico 8 marzo 2020 è stato da poco archiviato. È stata quindi esclusa qualsiasi responsabilità a carico dello Stato poiché, si legge, causa unica ed esclusiva del decesso è stata l’assunzione di estesi quantitativi di medicinali correttamente custoditi nel locale a ciò preposto.
L’archiviazione è stata disposta dal Gip nonostante l’opposizione presentata dall’Associazione Antigone, dal Garante Nazionale delle persone private della libertà personale e dai parenti di una delle vittime, Chouchane Hafedh. In particolare, l’Associazione Antigone e il Garante Nazionale sono stati ritenuti figure prive della qualifica di persone offese, non legittimate dunque a portare avanti la vertenza.
Ricordiamo tutti molto bene lo sgomento di quel giorno, il numero delle vittime che continuava a crescere, il vergognoso silenzio dell’allora Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che non ritenne opportuno pronunciare alcuna parola o esprimere alcuna forma di cordoglio per quella che è una tragedia che pesa su tutte le nostre coscienze. I nomi delle vittime non furono noti per giorni, le cause dei decessi liquidate velocemente in un’overdose da metadone sottratto nelle infermerie durante i disordini, ricostruzione portata avanti fino alla fine, per tutte le persone coinvolte. Tutte tranne una, Sasà Piscitelli, la nona vittima per la quale non è stato possibile disporre l’archiviazione poiché a novembre scorso cinque coraggiosi detenuti hanno raccontato la loro verità. Hanno raccontato una verità fatta di violenza arbitraria e, soprattutto, di incuria da parte di chi avrebbe dovuto verificare le condizioni di salute delle persone recluse prima di disporne i trasferimenti (altre tre sono morte, come Sasà, durante o immediatamente dopo la traduzione in altri istituti di pena) e intervenire prontamente di fronte a situazioni palesemente critiche.
Il sospetto che quanto denunciato per la morte di Sasà si sia potuto verificare anche per altri non ha prevalso. Probabilmente non ha neppure sfiorato istituzioni troppo impegnate a salvaguardare il consenso dell’opinione pubblica e la necessità di uscirne, anche stavolta, “pulite”. Eppure, la verità farebbe comodo a tutti poiché si potrebbero svelare finalmente dinamiche di potere e soprusi a cui sembriamo esserci irrimediabilmente abituati.
Ce lo dimostra quanto avvenuto lo scorso anno tra le mura del carcere di Santa Maria Capua Vetere o in numerosi altri istituti in cui sono stati denunciati pestaggi, violenze e soprusi di ogni genere ai danni di persone che si trovano sotto la custodia dello Stato e che, invece, vengono confuse e identificate con il reato da esse compiuto, senza alcuna possibilità di restare umane. Gli istituti di pena rimangono tasselli ai margini della società, di cui ci si occupa esclusivamente quando si ritiene necessario esprimere i propri istinti giustizialisti, fomentati da una classe politica incapace che ha fatto del securitarismo e della repressione la propria principale modalità di azione.
La disumanizzazione delle persone detenute è stata palese durante le rivolte, quando ci si è affannati a puntare il dito, ignorando la condizione di terrore di chi si ritrova recluso, senza un’informazione adeguata, nell’impossibilità di vedere i propri cari e temendo per la loro vita e per la propria, in un luogo in cui – come ci hanno dimostrato i dati – il contagio corre veloce a causa delle condizioni igienico-sanitarie precarie, del cronico sovraffollamento e della promiscuità degli spazi.
Velocissima, dunque, la decisione di nascondere la morte di otto persone sotto un tappeto da cui traspare, però, disumanità. Mostri troppo grandi per essere facilmente nascosti, spettri che continueranno a rendere colpevole il nostro Stato per aver privato di dignità tali individui, non solo mentre scontavano la loro pena, ma anche al momento della loro morte.
L’unica opportunità di riaprire le indagini è presentare nuovi elementi che lo rendano necessario. Il Comitato Verità e Giustizia per le morti del Carcere di Sant’Anna e l’Associazione Antigone hanno già espresso la loro volontà di andare avanti, di proseguire determinati fino a quando non sarà fatta giustizia. Ma la responsabilità principale –ahinoi – è dello Stato, che dovrebbe essere in grado finalmente di farsi carico di tutti i suoi cittadini, di utilizzare una simile tragedia per restituire dignità a chi è detenuto, per evitare che certi avvenimenti si ripetano perché la verità è un suo dovere e la deve a tutti noi.
La dobbiamo a Chouchane Hafedh, Methnani Bilel, Agrebi Slim, Bakili Ali, Ben Mesmia Lifti, Hadidi Ghazi, Iuzu Artur e Rouan Abdellah, corpi martoriati e dimenticati, e alle loro famiglie.