Il Carnevale più antico d’Europa – c’è addirittura chi lo vuole come una cristianizzazione di una festa già pagana – ha luogo a Putignano, in provincia di Bari. Come tutte le declinazioni di questa celebrazione, ha caratteristiche particolarissime, tracce di quello che in passato aveva un’importanza fondamentale per la civiltà contadina.
Innanzitutto, comincia presto. Dal 26 dicembre al “martedì grasso”, è un susseguirsi di riti, tradizioni, sfilate e processioni, in un continuo fondersi e alternarsi di sacro e profano. A Santo Stefano, ad esempio, si festeggiano le Propaggini, quando ha luogo la famosa sfida in dialetto a suon di satira. Il 17 gennaio, invece, ha vero e proprio inizio la festa del Carnevale, con il tacito permesso di Sant’Antonio Abate.
Tutta la programmazione, a questo punto, ruota attorno al giovedì, dedicato ogni settimana a un gruppo sociale diverso: si inizia con i Monsignori, per poi continuare con i Preti, le Monache, i Vedovi, i Pazzi – i giovani non ancora sposati – le Donne maritate e, per finire, con i Cornuti – gli uomini ammogliati.
L’edizione di quest’anno ha avuto, tuttavia, una deriva non proprio positiva: l’ultimo fine settimana prima del “martedì grasso”, infatti, è affogato un po’ nella pioggia, un po’ in una gestione quantomeno confusa degli eventi.
Proprio perché da sabato alcune delle manifestazioni più attese dai piccoli – il giro per il centro storico sul filo delle narrazioni di Conta che ti Conta, organizzato dalla libreria Lik e Lak – e dai grandi – il Carnevale N’de Jos’r, le feste negli jusi, i sottani caratteristici del borgo che per l’occasione si animano e illuminano nei modi più disparati – non si sono potuti svolgere per la pioggia forte, l’attesa era tutta per la sfilata dei carri allegorici che avrebbe dovuto avere luogo domenica, complice anche il comunicato della Fondazione per il Carnevale che dava per certo lo svolgimento dell’evento anche in caso di maltempo.
Il risveglio, però, la mattina del 26 febbraio, è stato brusco, oltre che umido. L’intero paese, infatti, ha dovuto fare i conti con quelle che sono state le decisioni di vigili e Protezione civile che, prevista un’allerta meteo di 48 ore, hanno imposto alla Fondazione l’annullamento della sfilata. Comprensibilissimo, quindi, lo sconforto di turisti, albergatori e commercianti, giacché l’annuncio è stato dato prestissimo e per tutta la mattinata il tempo si è tenuto abbastanza stabile: gelido, coperto, ma senza pioggia.
Con il senno di poi le polemiche da entrambi i lati sono abbastanza semplici, anche troppo. Ha avuto senso anticipare di tanto l’annullamento della sfilata? Non si poteva cercare di far sfilare i carri in quelle tre, quattro ore in cui non avrebbe piovuto? Se invece si fosse fatta e fosse venuto a piovere, al di là dei danni ai carri, chi si sarebbe addossato le colpe di una disgrazia possibile in situazioni di folla e panico? Non è assurdo che per motivi di sicurezza si sia scelto di evitare di svolgere la festa sotto la pioggia e si siano poi indirizzati i turisti verso i capannoni un cui vengono costruiti i carri, dove ipotetiche situazioni di pericolo potrebbero essere maggiori? Troppo facili, appunto. E sterili.
Tuttavia, quello che è rimasto a chi c’era è, per fortuna, qualcosa di buono. Sì, la sfilata era stata annullata e quindi sì, l’unico modo di vedere i carri allegorici era recarsi negli hangar, enormi capannoni industriali, tra la folla e gli schiamazzi di chi voleva per forza una foto con i giganti in cartapesta. Ma, fortunatamente, il maltempo aveva lavato via alcune cose inutili.
Siate in grado, per un istante, di immaginare di entrare in un enorme agglomerato di capannoni in cemento, sovrastati da un cielo grigio che pare rifletterne la cupezza, e all’improvviso, al vostro ingresso, immaginate di scoprire che meno di un quarto dello spazio che vi aspettavate è libero. Circa l’ottanta per cento del volume, infatti, è occupato dai carri, in parte smontati, quasi tutti immobili. Enormi pupi di cartapesta, coloratissimi e grotteschi, si dividono lo spazio in cui sono stati creati. Imponenti, come le giostre di un luna park in disuso, ma nuovi, fiammanti e, diversamente da quelle giostre, pronti, sul punto di uscire. Una festa in stand-by. Se avrete la forza di astrarvi completamente – e non tener conto dei gruppi di venti, trenta persone che, rumorosi, vogliono entrare “TUTTI INSIEME!” incuranti della logistica e del civil muoversi, o ancor di più non tener conto dei bambini che sbandierano la maleducazione dei genitori correndo e toccando ogni cosa, cercando di salire sui carri, anche dove possibile con malagrazia e senza la consapevolezza che dietro quell’enorme costruzione colorata ci sono mesi di lavoro – allora potrete godere del Carnevale vero.
Per un anno i carristi hanno lavorato alla loro opera. Sulle mura di cemento vivo, il laboratorio, ci sono alcuni dei premi vinti, vecchie foto, i bozzetti delle edizioni passate e quello del carro di quest’anno. La fucina si stringe calda attorno a queste costruzioni titaniche e tutto, per chi ha voglia di scoprirlo, sa di una festa in cui si crede. Profondamente.
Ed è così che un altro Carnevale si rivela: fagocitato dagli imprevisti e malgestito, ma lontano dalla filodiffusione squillante del centro storico e dalla patina plastificata di alcuni volantini. Solo colla, carta di giornali e una bravura non da poco, il cui prodotto esplode occupando tutto l’occupabile in un capannone di cemento. E resta tra i ricordi belli.
*foto di Giulia Giuranna©