Quello delle primarie rappresenta sempre un esercizio di democrazia che tutti i partiti dovrebbero impegnarsi a fare, quantomeno per responsabilizzare, in caso di vittoria o sconfitta del candidato, i propri elettori. Ricordiamo ancora cosa succedeva sino a qualche anno fa – oggi probabilmente nemmeno si pongono più il problema – all’interno del centrodestra, quando qualcuno, come Raffaele Fitto, osava timidamente chiedere di far scegliere i candidati ai cittadini: non c’era richiesta che potesse suonare più dissacrante e blasfema alle orecchie di chi i nomi li sceglie nei celebri summit di Arcore.
Per quanto si sia rivelato entusiasmante vedere i cittadini tornare ai gazebo, le primarie tenutesi la scorsa domenica a Roma e a Bologna per scegliere il candidato sindaco del Partito Democratico sono state più una formalità che altro, soprattutto nella Capitale, dove era data per scontata la vittoria di Roberto Gualtieri, che su sette candidati è riuscito comunque a ottenere il 60.4% dei voti, forte sia della sua immagine – essendo stato sino a qualche mese fa Ministro dell’Economia del Governo Conte bis – sia dell’appoggio dei big del partito. Meno scontata, ma comunque molto probabile, era, invece, la vittoria di Matteo Lepore a Bologna, che ha ottenuto il 59.6% contro il 40.4% di Isabella Conti, sostenuta da Renzi e dal resto di Italia Viva.
La situazione per il nuovo centrosinistra, quello della coalizione targata Letta-Conte, dunque, è la seguente: a Bologna tutti uniti per Lepore, con il leader del MoVimento 5 Stelle che si è esposto più degli altri e che in una lettera al Resto Del Carlino ha scritto di un grande lavoro di avvicinamento e di confronto su importanti temi che hanno posto le basi per una solida coalizione. Stesso discorso vale per Napoli, dove non era scontato superare l’egemonia di De Luca e presentare un nome, quale quello di Gaetano Manfredi, lontano dalle dinamiche dei capi bastoni locali, nonostante sia un vero peccato non aver provato a lanciare un progetto comune insieme all’attuale maggioranza.
La coalizione, invece, non è per niente solida a Torino, dove il PD ha il suo candidato, che è Stefano Lo Russo, mentre i pentastellati devono fare i conti con la condanna in primo grado di Chiara Appendino per i fatti di Piazza San Carlo, che la rendono incandidabile secondo lo statuto dello stesso MoVimento. Parliamo, comunque, di una città dove lo scontro tra i democratici e i grillini è stato piuttosto elevato in questi anni: è la stessa città, infatti, in cui il PD è nelle mani, tra i vari, del profeta Piero Fassino, colui il quale, quando più di dieci anni fa Grillo propose di candidarsi alle primarie del PD, rispose che non fosse il caso e gli suggerì di farsi un partito. E la situazione peggiora se volgiamo lo sguardo a Roma, dove l’astio tra le due forze si consuma sin dai tempi in cui Virginia Raggi, da consigliere comunale, si presentò al Campidoglio con le arance, in seguito ai primi arresti di Mafia Capitale. Lo scontro si acuì, poi, in occasione delle elezioni amministrative del 2016, quando il M5S basò quasi tutta la propria campagna elettorale su quella vicenda.
I rapporti, naturalmente, non sono migliorati nel corso dell’amministrazione pentastellata, al punto tale che non più tardi di due mesi fa Nicola Zingaretti ha definito la ricandidatura della Raggi come una minaccia. Ma è altrettanto complesso anche il discorso relativo alle Regionali in Calabria, dove la corsa di Maria Antonietta Ventura è sostenuta da PD, M5S e Articolo 1 ma non da Sinistra Italiana, che farà campagna elettorale per de Magistris. E subito viene in mente la rinomata scissione dell’atomo di Corrado Guzzanti che imitava Bertinotti.
Si dirà, come ha detto anche lo stesso Conte, che è bene evitare fusioni a freddo sui territori. E si dirà anche che gli scontri e le accuse reciproche fanno parte di un’altra era politica e che oggi abbiamo di fronte un altro PD e un altro M5S. Ed è vero anche questo. Ma è realmente difficile immaginare la campagna elettorale dei prossimi mesi: Letta e Conte cosa faranno? Si daranno appuntamento a Napoli per sostenere Manfredi e dopo qualche ora saliranno a Roma per andare in due piazze diverse a sostenere due persone diverse? Conte sa che nella Capitale dovrà combattere l’ex Ministro dell’Economia del suo governo, ovvero la persona con cui è riuscito a ottenere i 209 miliardi del Recovery?
Ecco perché, oltre a evitare fusioni a freddo, la coalizione PD-M5S deve pensare anche a essere più omogenea, evitando di creare confusione tra i cittadini che hanno bisogno di chiarezza e di coerenza. È l’unico modo, questo, per battere la destra e per guadagnarsi credibilità. E le due cose vanno di pari passo.