All’insediamento del Governo Draghi, ormai quattro mesi fa, colti dalla sorpresa nel vedere alcuni “grandi” ritorni nella squadra dei migliori, il direttore di questo giornale, altri pochi appassionati e io ci dicemmo che quantomeno ci saremmo divertiti nel commentare una maggioranza così confusa, composta da elementi tanto diversi tra loro. Soprattutto, eravamo convinti che ci sarebbe stato un animato dibattito tra i commentatori, essendo rimasti non poco spiazzati da un tale miscuglio. Ebbene, a mente fredda, notando la forma che la situazione ha preso, dobbiamo ammettere che purtroppo ci sbagliavamo: mai come oggi, c’è un conformismo tale per cui persino i battibecchi tra Salvini e il governo – di cui il partito che guida fa parte – passano in secondo, in terzo e persino in quarto piano rispetto al modo in cui viene quasi quotidianamente osannato l’operato di Draghi, Figliuolo e dei Ministri tutti.
Sia chiaro, nessuno mette in dubbio il fatto che la campagna vaccinale stia procedendo meglio delle aspettative, che il numero dei decessi stia notevolmente diminuendo e che nel Paese si stia ritornando a un’aria di semi-normalità, ma alla fine era proprio quello che quest’esecutivo doveva fare, forte anche del terreno fertile lasciato dai predecessori. Per fortuna, a svegliarci da questa noia perenne a cui quasi tutti i giornali ci stanno abituando ha pensato Michele Santoro, tornato sugli schermi per promuovere il suo ultimo libro Nient’altro che la verità, per il quale ha intervistato il killer di mafia Maurizio Avola.
Con la sua solita irriverenza, Santoro ha mostrato cosa vuol dire essere una voce fuori dal coro, senza forzarsi per fingersi tale o per esserlo a priori, ma dando prova – dati alla mano – che non esiste e non può esistere un’unica voce, nemmeno tra i mass media. E lo ha fatto, il giornalista campano, fornendo una narrazione atipica, nostalgica della televisione, affermando la necessità di un senso critico nei confronti dell’operato del potere e ricordando come in una democrazia il giornalismo debba svolgere la funzione di cane da guardia. Tutto ciò – aggiungiamo noi – dopo un anno e mezzo durante il quale dapprima si sono costruiti pezzi giornalistici sui ritardi in conferenza stampa dell’ex Premier e poi si è passati all’estrema lode persino del fatto che Draghi chiami condono quello che effettivamente è un condono. Come se chiamarlo per nome assolvesse il Primo Ministro dalla sua emanazione.
Ebbene, nonostante Santoro possa non essere condivisibile nel momento in cui afferma che non è stato dato spazio a chi sosteneva tesi contrarie al vaccino – non fosse altro che la produzione e l’uso dei vaccini sono stati convalidati dalle più alte autorità scientifiche –, la domanda sorge spontanea: è possibile che abbiamo dovuto aspettare un giornalista che al momento non ha programmi in tv e non scrive su nessun quotidiano per sentire delle critiche nei confronti di politica e informazione?
Si dirà che anche il Conte bis è stato fortemente criticato per il suo operato, ed è vero, ma le principali e reiterate critiche mosse al professore foggiano riguardavano l’orario delle conferenze stampa e le fantomatiche dirette Facebook. Inoltre, come sappiamo, l’ex Presidente del Consiglio è stato attaccato perché voleva esautorare i poteri del Parlamento e per il vulnus democratico dovuto a una gestione – secondo i detrattori – poco trasparente della fase di redazione del Recovery Plan. Pochi, però, sottolineano che il Recovery scritto da Draghi riprende in gran parte quanto abbozzato dal suo predecessore e quasi nessuno si rende conto – o finge di non rendersi conto – del poco dibattito e della bassa partecipazione che c’è stata attorno alla stesura dello stesso.
Insomma, mentre la maggior parte della stampa è piuttosto ignava nei confronti del potere, persino quei colleghi che si definiscono progressisti – vigliaccamente silenti anche quando Draghi definisce salvataggi l’operato criminale della guardia costiera libica –, abbiamo dovuto attendere un giornalista cacciato due volte dalla RAI, vittima del famigerato editto bulgaro di berlusconiana memoria e, soprattutto, senza alcuno spazio mediatico per uscire dal conformismo tanto mediatico quanto politico. In questo modo, Santoro ha potuto dimostrare che per esercitare il diritto di critica non è necessario mettersi una zucca in testa o aggrapparsi a pretesti pur di sparare nel mucchio, ma che il ruolo del giornalismo è anche quello di far emergere e sottolineare spazi di critica – anche quando si è abbastanza d’accordo. Perché, in fondo, le critiche servono soprattutto a chi le riceve.