Non credo di dover spiegare a nessuno di voi chi sia Giovanni Brusca né per quali motivi sia finito al centro del dibattito pubblico appena una settimana fa. La sua scarcerazione – dovuta ad alcuni benefici acquisiti in seguito alla collaborazione con la giustizia – ha suscitato sterili polemiche. Sterili poiché di altro non si è trattato se non dell’applicazione di una legge che permette a chi collabora di beneficiare di misure che altrimenti gli sarebbero precluse.
Levate di scudi sono arrivate da ogni dove, anche da chi solitamente si fa strenuo difensore dei diritti civili. Come Marco Damilano, il direttore de L’Espresso che, nella scorsa puntata di Propaganda Live, nel suo consueto Spiegone – stavolta dedicato alle criticità del nostro Paese –, ha affermato che in Italia i conti non tornano perché Brusca esce dal carcere e Patrick Zaki vi rimane. Si tratta senza dubbio di un’associazione fuorviante e superficiale. I due casi messi in correlazione sono diversi e le rispettive scarcerazioni – entrambe legittime – si basano o si baserebbero su ragioni giuridiche ed etiche del tutto differenti.
Patrick Zaki – come abbiamo sottolineato più volte – è vittima innocente del sistema giudiziario egiziano contro il quale l’Italia non sta facendo nulla, mantenendo saldi i rapporti diplomatici con l’Egitto. Giovanni Brusca, invece, ha altrettanto diritto di tornare in libertà poiché ha fatto tutto ciò che la legge pone come condizione per la scarcerazione. Per questo, lo Stato non può permettersi di prolungarne oltremodo la detenzione poiché, diversamente, diventerebbe sequestratore di un suo cittadino.
La collaborazione con la giustizia è l’unico modo previsto per chi è condannato all’ergastolo ostativo per eliminare la parola mai dal proprio fine pena. Abbiamo sottolineato in più occasioni come la collaborazione di per sé sia inidonea a verificare la reale partecipazione al trattamento rieducativo del detenuto, che potrebbe essere spinto a collaborare o meno per le ragioni più disparate. Si tratta, infatti, di una preclusione di carattere assoluto che è stata ritenuta illegittima sia dalla CEDU sia dalla Corte Costituzionale, poiché non lascia alcuno spazio alla discrezionalità del giudice e contrasta con il fine rieducativo e risocializzante della pena. La Consulta ha però rimesso la questione al legislatore, chiedendogli di intervenire sul tema entro un anno.
Prendiamo così in prestito le stesse parole di Marco Damilano che ha affermato, tra le altre cose, che i conti non tornano per la categoria dei giornalisti. Non potremmo essere più d’accordo, sprovvista com’è la categoria di qualsiasi forma di tutela. E i conti, per i giornalisti, non sono tornati neppure stavolta, con i loro titoloni sensazionalistici e le informazioni superficiali.
La notizia è stata utilizzata per creare allarmismo sull’intervento del legislatore: Attenzione a ciò che si fa con la legge sull’ergastolo ostativo, poiché diversamente altri Giovanni Brusca rischiano di tornare in libertà senza neppure aver collaborato, ha scritto qualcuno lasciando intendere che la modifica della disciplina abbia la finalità di scarcerare chiunque, senza alcuna limitazione. Così non è, poiché lo scopo è evitare preclusioni assolute e automatismi che non tengono conto del singolo caso e della singola persona.
La condanna di Giovanni Brusca è di 25 anni nonostante gli efferati crimini da lui commessi: fuorviante anche questo poiché la pena comminata è l’ergastolo e il fatto che attraverso una legge – che per fortuna esiste – Brusca sia riuscito a essere scarcerato collaborando non la rende meno incisiva. Allo stesso tempo, definire abbuono di 45 giorni il meccanismo legislativo della liberazione anticipata è falso e tendenzioso poiché lascia intendere che il nostro Stato sia oltremodo generoso e che ciò che accade dipenda dalla sua benevolenza. Così non è ed è inutile dire che si tratti di sacrosanti diritti, frutto di disposizioni nate per volere di chi ha subito per primo la macchina assassina della mafia.
La scarcerazione di Giovanni Brusca, caro Damilano, non è un fallimento dello Stato, e purtroppo ci tocca costatare che le uniche occasioni in cui lo sguardo dell’opinione pubblica si rivolge verso il carcere e le pene detentive sono finalizzate all’espressione di mere istanze punitive e di vendetta. È vero, i conti non tornano quando centinaia di persone all’anno si tolgono la vita tra le mura degli istituti penitenziari, o tentano con atti autolesionistici di attirare l’attenzione sulla loro condizione di disagio. Non tornano quando si contano migliaia di persone innocenti vittime del nostro sistema giudiziario, a cui toccherà – se fortunate – un risarcimento di pochi euro, per ogni giorno di detenzione arbitraria, che non ripagherà dagli affetti e dalla vita di cui sono state private. Non tornano quando sentenze europee affermano che i detenuti, in Italia, hanno a disposizione meno spazio di quello che hanno i maiali. Non tornano quando emergono abusi e violenze da parte di chi quelle stesse persone dovrebbe tutelarle.
Brusca è uscito dal carcere poiché la legge gli consente di farlo e poiché la sua collaborazione si è rivelata molto utile ai fini della lotta alla mafia. Si tratta di uno dei pochissimi strumenti che lo Stato ha a disposizione a tal fine e che deve guardarsi bene dall’eliminare. Le reazioni inconsulte sono esternazioni impulsive, tipiche della visione occhio per occhio, dente per dente, avallata dalla maggior parte dei giornalisti nostrani e dei rappresentanti politici – da cui, quindi, non c’è da aspettarsi nulla di buono. Tuttavia, lo Stato non può cedere a mere istanze vendicative che vorrebbero la condanna di Brusca – e di chi abbia ricoperto il suo stesso ruolo nell’ambito delle organizzazioni criminali – agli stessi supplizi e sofferenze a cui lui ha condannato le sue vittime e i loro familiari.
Uno Stato di diritto è tale perché salvaguarda i diritti umani anche dei suoi “cittadini peggiori”, perché se ne fa carico e cerca di porre fine alle ingiustizie che caratterizzano la nostra società. Uno Stato di diritto ha il dovere di non mettere alla gogna chi è in carcere, di non spettacolarizzare le vicende giudiziarie, di non attuare mere istanze repressive.
Ha ragione Damilano a dire che i conti non tornano, e non torneranno fino a quando ci sentiremo in diritto di ergerci a detentori della giustizia e della verità, delle categorie di buono e cattivo, di legittimo e illegittimo, di carnefici e vittime. Fino a quando penseremo di poter sindacare su chi deve e chi non deve restare in carcere, spinti dalla nostra sola sete di vendetta. Non si tratta di categorie immutabili e, probabilmente, non siamo migliori di coloro di cui invochiamo a gran voce la morte.