Senza casa ma non senza tetto, su van, camper e furgoni, una nuova generazione di nomadi gira per gli States, senza un “sogno” da realizzare, una nuova frontiera da inaugurare, un pezzo di terra da conquistare: hanno più di cinquant’anni e sono il prodotto della crisi del 2008, quello dei derivati, del tracollo della bolla speculativa, del fallimento della Lehman Brothers.
Anche Jessica Bruder, l’autrice del libro-inchiesta pubblicato nel 2017 (e da cui è stato tratto Nomadland, il film vincitore agli ultimi Oscar), ha girato su un van per tre anni a parlare con le persone che vivono on the road, espulse dal ciclo produttivo e che si portano addosso i segni della fine di ogni sogno – lavoro-casa-famiglia – ma che, lungo la strada, hanno incontrato storie simili, la compassione e la tenerezza, l’aiutarsi, un modo di vivere fuori dalla “dittatura del dollaro”, della merce e del consumo a tutti costi.
Vivono una dimensione di vita assolutamente inedita, per nulla frutto di una scelta ideologica o l’approdo di una ribellione contro la società, bensì il prodotto di una presa d’atto semplice, come racconta Fern, la protagonista-archetipo: a un certo punto chiude lo stabilimento della US Gypsum, a Nord-Ovest del Nevada, nel deserto del Black Rock e di conseguenza chiude la piccola cittadina, Empire, dove abitano i suoi addetti. Fabbrica chiusa, cittadina cancellata, eliminato anche il codice postale: tutto è finito, con il lavoro se ne è andata la casa e la comunità.
Fern ha perso anche il marito, dopo lunghi mesi di sofferenza, e non le resta, quindi, che mettersi in viaggio su un piccolo furgoncino che lei stessa ha arricchito di cassetti e portaoggetti nei quali, in spazi ristretti, ha racchiuso le testimonianze di sessant’anni di affetti e legami. Fern parte a cercare lavori saltuari, a ridosso del ciclo espansivo di aziende come Amazon che dal 2008 inaugura il programma Camper Force per rivolgersi ai migranti e coprire i picchi del ciclo produttivo: turni di dieci, dodici ore, pagati dagli 11 ai 15 dollari all’ora, quanto basta ad accumulare quello che serve per viaggiare a lungo.
La vita di Fern è fatta di lavori saltuari e notti al freddo, panorami mozzafiato e sere solitarie ma anche e soprattutto di incontri con un’umanità simile a lei: sessantenni privi di ogni welfare che vagano in cerca di impieghi occasionali e che hanno finito con il costituirsi in comunità, con una base fissa dove poter tornare al termine di ogni giro. Una comunità fatta di storie personali, di sofferenze e di memoria, ma anche di empatia e scambio di oggetti e informazioni, di sere passate tutti insieme intorno al fuoco, affrontando i lutti con un rito che ha una sua intensa e coinvolgente semplicità: una pietra lanciata a turno nel fuoco con la frase I’ll see you down the road (ci vedremo lungo la strada).
Bob Wells, il fondatore della comunità, uno dei migranti che ha accettato di interpretare se stesso nel film, lo dice ogni volta, pensando al figlio, morto suicida giovanissimo. Non c’è un futuro diverso da questo: l’incontrarsi di nuovo on the road, scambiarsi una parola, una sigaretta, un minerale, un suggerimento. Eppure, le sofferenze, le memorie dolorose, la consapevolezza di una morte imminente, esposte nel corso della pellicola, non fanno di questo un film doloroso o insopportabile: tutt’altro. È un film che ti viene a interrogare – mentre sei lì in poltrona e ti godi l’interpretazione mitica della McDormand o le inquadrature della natura, dei canyon, delle sequoie centenarie – sul senso della tua vita, circondato sempre da qualcosa in più di quello che è realmente indispensabile, imprigionato da scadenze innaturali e spinto a un’eterna competizione con qualcosa o qualcuno, lapidando quotidianamente un pezzo della dotazione originaria di umanità per correre verso un domani sempre più incerto e fosco.
Vale la pena vedere Nomadland, accettando l’invito pressante di Frances McDormand che ritirando l’Oscar ha ripetuto più volte: andate a vederlo al cinema, al cinema, al cinema. Perché è solo lì che si possono godere veramente i panorami mozzafiato dell’Arizona, del Nebraska, del Nevada, della California e del South Dakota, fotografati da Joshua James Richards, il marito di Jessica Bruder. Ma, soprattutto, vale la pena vederlo perché è un film pieno di amore, un manifesto di tutto quello che è veramente essenziale per vivere: perché la vita abbia un senso, sia fondata su valori semplici e sia declinata in tutte le diverse sfumature dell’umanità.
La “modernità” con i suoi orpelli sfolgoranti è volutamente ai margini dell’occhio della regista cino-americana Chloé Zhao, che centra il suo racconto sulla natura e sui sentimenti primari dell’uomo a contatto con essa, sul senso della vita e su una “pace” possibile nella continua ricerca “oltre l’orizzonte”. Il film ha vinto, meritatamente, tutto quello che poteva vincere dopo il Leone d’Oro a Venezia.
FrancesMcDormand, che ha creduto fin dal primo momento nella storia che ne ha dato origine, comprandone subito i diritti e trovando la regista, applicando il metodo Strasberg (girando per sei mesi in un van simile a quello di Fern) per immedesimarsi nel personaggio, lascia alla storia del cinema un’interpretazione eccelsa: fatta di espressioni, di contrazioni minime dei muscoli facciali, di sorrisi con gli occhi, di sguardi intensi e di sentimenti appena accennati che ti prendono con delicatezza e ti rimangono dentro fino alla fine.
Essi costituiscono il filo da seguire per passare dall’idea di vedere un documentario sulla natura a quella di immergersi in un film ricchissimo di sentimenti e sfidante perché pone una domanda radicale: fuori dal rapporto sempre più consunto e precario con le leggi economiche sotto il dominio della merce, del profitto e del capitale, è, dunque, possibile sopravvivere?
Sì, rispondono in coro i personaggi del film: sconfitti, vinti ed espulsi dalle ferree leggi capitalistiche, hanno riscoperto la ricchezza dell’umanità che per vivere non ha bisogno di cellulari e merci ma di contatti, di parole, di scambi d’amore.
Contributo a cura di Pierluigi del Pinto