È pratica comune in Italia – e non solo – addurre a una vittima di stupro una parte delle colpe, se non la loro totalità, della violenza subita. Si chiama vittimizzazione secondaria e ha lo scopo non tanto di scagionare i colpevoli di tali reati – cosa che avviene, più che altro, come conseguenza di tale tendenza – quanto invece per addossare alle donne la responsabilità di eventi che prescindono dalle loro decisioni, con l’obiettivo di controllarne le azioni e reprimerne la libertà.
Dal non dovevi ubriacarti al perché ci sei andata, fino al deplorevole com’eri vestita, queste frasi che sentiamo quotidianamente e alle quali le vittime, anzi, le survivor tentano di ribellarsi senza successo, rappresentano convinzioni indelebili sia nel sistema giudiziario sia nelle narrazioni popolari. Ma, finalmente, il nostro Paese è stato punito per i suoi errori: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato alcuni giudici italiani per il modo in cui hanno condotto l’appello al processo sullo stupro della Fortezza da Basso, definendo l’Italia un Paese maschilista.
Era il 2008 quando una giovane ventiduenne denunciò uno stupro di gruppo di cui era stata vittima durante una festa a Firenze. Nel 2013, sei dei sette imputati furono condannati per violenza sessuale di gruppo aggravata, ma nel 2015 la Corte d’Appello rovesciò il verdetto e i sei imputati furono assolti perché il fatto non sussisteva. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ora stabilito che la sentenza del 2015 fu basata su stereotipi sessisti che non hanno consentito al sistema di tutelare i diritti della donna. L’Italia è stata dunque condannata da Strasburgo e la giovane risarcita di 12mila euro e delle spese legali.
Sebbene il risarcimento sia esiguo considerando la gravità del reato, e sebbene non potrà essere ribaltato il provvedimento che scagionò gli aggressori, la condanna rappresenta un segnale chiaro della disfunzione del sistema italiano. Secondo la Corte Europea, infatti, la sentenza del 2015 viola l’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che prevede il rispetto della riservatezza della vita privata. Sono proprio la vita privata e le abitudini, le inclinazioni e i dettagli personali, infatti, a essere spesso utilizzati come fattori legittimanti di un atto sessuale che è in realtà una violenza. Ciò che è accaduto alla protagonista di questa tragica storia non è diverso da ciò che si sente quotidianamente nelle cronache di quello che sembra il crimine violento più frequente in Italia. Alla donna sono state fatte domande sulla biancheria intima che indossava, come se il colore o il modello di un capo d’abbigliamento potessero rappresentare consenso verso chiunque. Sono stati indagati la sua vita privata e l’orientamento sessuale e tutti insieme hanno stabilito, agli occhi della Corte, che il reato non sussisteva.
Nulla è cambiato da quando nel 1979 andava in onda Processo per stupro e la difesa tentava di legittimare la violenza perpetrata a causa dello stile di vita liberale della vittima. Nulla di diverso dalla polemica su Ciro Grillo e il ritardo incriminante di una denuncia che non può avere limiti temporali. Per non parlare del caso Genovesi, che si è fatto l’ignobile emblema del cosiddetto victim blaming, la colpevolizzazione della vittima, che se non si fosse vestita in un certo modo o se non avesse abusato di una sostanza stupefacente, allora non avrebbe subito la violenza. Se fosse rimasta a casa, insomma, a prendersi cura di quel focolaio che le spetta non sarebbe diventata preda di uomini dagli istinti legittimamente incontrollabili.
È questa la vittimizzazione secondaria denunciata dalla Corte di Strasburgo. Secondo la condanna, le autorità giudiziarie hanno riproposto stereotipi sessisti largamente diffusi nella cultura popolare invece di contrastarli e hanno preso la propria decisione minimizzando le violenze di genere e colpevolizzando la vittima stessa – che, appunto, è vittima due volte, quando subisce la violenza e quando il tribunale tenta di colpevolizzarla – utilizzando criteri morali, tra l’altro discutibili, per prendere decisioni che con la morale non hanno nulla a che fare.
Che all’Italia piaccia colpevolizzare le vittime di violenza sessuale è cosa risaputa. Basta leggere i commenti che seguono un qualunque fatto di cronaca di questo tipo per rendersi conto di quanto una donna abusata abbia molta più responsabilità dell’uomo abusante. È una tendenza che ha origine nel sistema patriarcale di cui l’Italia evidentemente non sa liberarsi e concentra il suo fulcro sulla convinzione per cui a una donna debba essere precluso il piacere sessuale.
Se una donna vive liberamente la propria sessualità, senza essere limitata dai sensi di colpa – così come dovrebbe essere – allora merita di subire violenza poiché con il suo atteggiamento se l’è cercata. Cosa che, ovviamente, non vale per gli uomini, che non solo sono liberi, ma hanno bisogno del sesso, non possono controllare i propri impulsi e dunque non è del tutto colpa loro se violentano una lei evidentemente provocatoria a causa degli slip di pizzo rosso che indossa. Insomma, secondo queste surreali seppur diffusissime narrazioni, le donne non devono cercare il piacere se non vogliono finire per subirlo, e gli uomini sono privi di intelligenza e di freni inibitori tanto che se vedono una preda devono cacciarla per forza. Un punto di vista che, a pensarci più attentamente, non fa bene né alle une né agli altri.
Ebbene, che all’Italia piaccia colpevolizzare le vittime di violenza sessuale è cosa diffusa, ma non è accettabile che le istituzioni, che dovrebbero garantire la giustizia e tutelare i diritti dei cittadini, riproducano quelle stesse dinamiche. Sono proprio queste dinamiche a far sì che la giustizia in simili casi non funzioni affatto. Meno di un processo di stupro su tre giunge a condanna e in tutti la vittimizzazione secondaria è messa in atto. Le percentuali sono, inspiegabilmente, ancora più basse se si tratta di violenze di gruppo. Come può sorprendere, allora, se solo l’11% delle vittime di stupro denuncia la violenza subita? E, soprattutto, come può il sistema rimediare a tali inaccettabili condizioni se non solo non riesce a condannare, ma non riesce a identificare tutti gli stupri che ogni anno avvengono nel nostro Paese?