Già Sindaco di Pistoia, Presidente della Regione Toscana, Sottosegretario durante il Governo Amato e Ministro nel Governo Prodi, Vannino Chiti ha pubblicato il libro Il destino di un’idea e il futuro della sinistra. PCI e cattolici una radice della diversità, edito Guerini e Associati.
La confusione regna sovrana nel panorama della sinistra, divisa al suo interno e a volte incapace di mettere insieme i punti in comune. Per questo, c’è chi ha definito Papa Francesco il suo principale leader, sia per un venir meno di quest’ultima all’attenzione verso le grandi questioni che la toccano sia per le posizioni originali nel campo della Chiesa che l’attuale Pontefice ha assunto. Di questo e altro leggerete nell’intervista che segue.
Nel Suo libro scrive che Le radici si selezionano, non si recidono, altrimenti, come una pianta, la sinistra rinsecchisce e muore. Pensa che la sinistra negli ultimi dieci anni abbia tagliato le proprie radici?
«Penso che non solo in Italia, ma in Europa, la sinistra anziché fare un esame critico del suo patrimonio di valori e di politiche abbia scelto spesso di cancellare una memoria storica, di tagliare tutto anziché selezionare ciò che doveva essere tenuto fermo o sviluppato e ciò che si doveva abbandonare. Talora, addirittura si è pensato che, cadute alcune ideologie, non ci fosse spazio per i valori. Quando è stato fatto si è finiti in un pragmatismo senza orizzonti, in un adagiarsi sull’esistente anziché impegnarsi a cambiarlo».
Quando oggi pensa alla sinistra, cosa Le viene in mente relativamente alle formazioni politiche e sociali che sono in campo?
«Parlo della situazione nostrana. Diverso sarebbe il discorso se ci riferissimo a realtà politiche ad esempio del Terzo mondo. La sinistra italiana è frammentata, non ha solidi e stabili riferimenti sociali, non è al momento capace di avanzare un progetto di società e del mondo. Occorrono valori, visioni, programmi. È necessario dare vita dal basso a una costituente per una nuova coalizione progressista. Per stare al concreto: penso che la sinistra debba proporre un nuovo umanesimo, coinvolgendo credenti (non solo cattolici) e non credenti; la democrazia federale europea, gli Stati Uniti d’Europa; la dignità di ogni persona; i diritti dei lavoratori e i fondamentali diritti umani (libertà, uguaglianza, fraternità); l’ecologia a guida dello sviluppo; il disarmo e la paziente costruzione della pace. La sinistra non è una destra “più buona e gentile”: è una cultura, è una politica alternativa».
Nel Paese c’è ancora desiderio di sinistra, che è tanto invocata da diverse fette sociali. Ma come mai i partiti non hanno presa o comunque non riescono a farsi interpreti di questa necessità?
«Nel ragionamento svolto prima c’è, in parte, la mia risposta. Negli anni Novanta la sinistra in Europa ha preso un abbaglio: chi più, chi meno, ma ci riguarda tutti. Si è ritenuto che il mercato globale risolvesse i problemi, non è così. La globalizzazione neoliberista ha fatto uscire dalla povertà milioni di persone nel Sud del mondo, ma ha aggravato le disuguaglianze, non sradicato le povertà, ma peggiorato le condizioni del mondo del lavoro e dei ceti medi in Occidente. Ha deteriorato, nel Sud del mondo stesso e ovunque, le condizioni ambientali. Il mercato ha bisogno di regole, di finalità sociali, altrimenti non l’economia ma la società diviene “di mercato”. L’istruzione, la scuola, il lavoro, l’ambiente cessano di essere diritti universali, dipendono dalle condizioni finanziarie di ognuno. C’è bisogno del ruolo del pubblico, dello Stato.
La sinistra in Europa si è illusa di poter rispondere alle sfide concentrandosi sui soli diritti civili. I diritti civili e politici sono fondamentali, ma se si separano da quelli sociali ed economici la sinistra si priva di futuro. La destra fa suoi i bisogni economici degli strati popolari e li contrappone alla libertà, alla democrazia, alla solidarietà. Non è forse quello che sta avvenendo? La sinistra non deve smarrire la concezione che diritti civili e politici, diritti economici e sociali sono le due facce, inseparabili, di una stessa medaglia».
Nel Suo libro fa certamente riferimento alla sinistra novecentesca: immaginerebbe oggi Berlinguer, Ingrao o Macaluso al governo con la destra sovranista, come stanno facendo i loro eredi politici?
«Berlinguer, Ingrao, Macaluso, insomma il PCI, hanno sostenuto dal 1976 al 1979 governi di unità nazionale guidati da Giulio Andreotti. L’Italia attraversava una crisi economica grave, aveva un’inflazione che sfiorava il 20%, le istituzioni democratiche erano sotto attacco dei terrorismi dell’estrema destra fascista e dell’estremismo di sinistra (Brigate Rosse, Prima Linea, etc). Un partito deve assumersi il peso e la responsabilità di pensare al bene del Paese anche condividendo con partiti distanti e avversari priorità legate a situazioni di emergenza. Il PCI aveva, però, una sua identità, una caratterizzazione politica e organizzativa, un’autonomia che poteva far perdere nell’esperienza dei consensi – come avvennuto – ma senza perdere se stesso.
Il problema dell’oggi a me pare questo: come il PD, LeU, gli stessi Cinque Stelle che hanno intrapreso un percorso per superare residui di populismo e radicarsi in una coalizione progressista, si daranno un’identità culturale, politica, programmatica forti così da non apparire subalterni o scoloriti rispetto a Lega e Forza Italia e come risulteranno determinanti nel pretendere dal Presidente del Consiglio Draghi e dal governo il rispetto e l’attuazione di temi prioritari come una riforma del fisco in senso progressivo, della giustizia che dia efficienza nella rigorosa salvaguardia dell’autonomia della magistratura, nell’impegno europeista che sta indigesto da sempre a Salvini».
Massimo D’Alema, che Lei conosce bene essendo stati entrambi Ministri del secondo Governo Prodi, ha affermato che Papa Francesco è oggi il principale leader della sinistra. Lo condivide?
«Nella sostanza sono d’accordo. Userei un’altra definizione. I papi e la Chiesa sono difficilmente incorniciabili nelle categorie comuni del linguaggio politico. Sulle grandi sfide che abbiamo di fronte Papa Francesco ci ha dato, soprattutto con le due encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti, un contributo di riflessione e degli obiettivi di riferimento per il bene comune dell’umanità, che la sinistra dovrebbe fare suoi e tradurre in un progetto per il mondo, in un’intesa tra tutte le forze democratiche e progressiste, in azione. Le dirò di più. In questa fase storica dalle religioni, dai credenti può venire un apporto importante alle sinistre. Ho in mente il documento sulla fratellanza umana sottoscritto ad Abu Dhabi dal Papa e dal Grande Imam dell’Università di al-Azhar Ahmad al-Tayyeb, le prese di posizione per l’ecologia e l’impegno contro l’aumento del clima del patriarca ortodosso Bartolomeo I, di rabbini, di induisti e buddisti. Ci sarebbe la possibilità di unire credenti di varie fedi religiose e non credenti attorno al destino dell’umanità. La domanda è se saremo all’altezza per farlo».
Come spiega il passaggio della Chiesa su alcune posizioni più progressiste?
«L’attuale Pontefice ha ripreso il filo dell’attuazione del Concilio Vaticano II in modo coerente. Già Giovanni XXIII con la Pacem in terris e Paolo VI con la Populorum progressio si erano incamminati su strade innovatrici, di progresso umano e sociale. Devo dire che anche Giovanni Paolo II sui temi dei diritti umani e della pace aveva svolto un ruolo importante: come non ricordare la convocazione ad Assisi dei leader spirituali di tutte le religioni per una preghiera comune contro la guerra in Iraq. Papa Francesco ha messo in luce i legami tra uno sviluppo economico e sociale ingiusto, che “scarta” le persone, si fonda sull’arricchimento di pochi, su privilegi scandalosi e la distruzione del pianeta, la corsa agli armamenti. Ha schierato la Chiesa a difesa della dignità di ogni persona, prima di tutto dei più deboli e dei poveri; ha detto no alla guerra dal momento che, soprattutto con gli armamenti di oggi, nucleari e non solo, non ci sono guerre giuste; si è opposto con vigore alla pena di morte. Ha messo sullo stesso piano la gravità di peccati individuali e di ordine morale e di peccati sociali, contro l’ambiente e le persone. È diventato comunista? No, ha non solo letto ma vuole vivere con coerenza e far vivere alla sua Chiesa il Vangelo. Venendo dal Sud del mondo sente con più forza e urgenza le sfide che l’umanità deve affrontare, l’urto delle disuguaglianze, l’urlo delle ingiustizie. Ha un’opposizione forte da parte di una destra politica e cattolica, da chi vuole, come spesso è successo nella storia, rendere le religioni un’ideologia al servizio dei poteri, delle divisioni tra popoli e persone. Ha ragione lui perché il rischio, mai conosciuto prima, è quello che l’umanità distrugga se stessa e il pianeta».
Crede che la generazione che proviene dal PCI, di cui anche Lei fa parte, abbia qualche responsabilità sulla crisi d’identità e di contenuti degli attuali dirigenti del centrosinistra?
«Sì, penso che abbiamo delle responsabilità. L’ho sottolineato in parte rispondendo alla Sua prima domanda: non abbiamo messo a fuoco collettivamente i limiti, i ritardi, le contraddizioni del PCI – in primo luogo, la collocazione internazionale e l’idea rimasta fino quasi alla fine di una riformabilità dell’Unione Sovietica e degli altri Paesi del cosiddetto socialismo reale – e, al tempo stesso, non abbiamo rivendicato ma, per così dire, abbiamo abbandonato alle ortiche gli aspetti positivi della nostra storia: la lotta contro la dittatura fascista e il nazismo, la Repubblica e la Costituzione, l’impegno per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e del popolo italiano, la difesa della democrazia contro il terrorismo.
Nel mio libro richiamo il valore di elaborazioni, certo da approfondire e sviluppare ma non da abbandonare, come l’austerità, i rapporti tra Nord e Sud del mondo, la questione morale, e all’atto di superare il PCI per dar vita a una nuova forza di sinistra, la Carta di Intenti, che conteneva alcune idee e obiettivi anticipatori tra i più avanzati nel socialismo europeo. Potrei continuare indicando l’attenzione alle fedi religiose, al mondo e non solo al proprio Paese, un’idea di partito che abbia un’etica e regole rigorose di vita interna, un rapporto costante con le persone. Non voglio dare proporre visioni nostalgiche: i partiti del Novecento non possono tornare, ma anche nell’epoca dei social si può e si deve essere un partito di popolo. Nel tempo della globalizzazione neoliberista si può e si deve essere portatori di visioni alternative, dei valori di un nuovo umanesimo. Qui stanno la responsabilità e anche i compiti dell’oggi».
Lei è stato Presidente della Regione Toscana, zona tradizionalmente rossa che a settembre ha rischiato di passare alla Lega. Il mese scorso è scattata l’inchiesta Keu, relativa allo sversamento di rifiuti e alla commistione tra concerie e politica al punto tale che, secondo l’accusa, l’ex Capo di Gabinetto del Presidente Giani, indagato per corruzione, si sarebbe messo a disposizione di alcune aziende in cambio di pressioni per una conferma del proprio ruolo. Allo stesso modo, Pieroni, Consigliere, è indagato per corruzione perché avrebbe portato in Consiglio Regionale un emendamento pro concerie in cambio di un contributo di 2-3mila euro. Non crede che questo sistema, al di là degli accertamenti della magistratura, porti a un crollo di fiducia nei confronti della sinistra?
«Ci sono due piani da tenere distinti: l’azione della magistratura, che mi auguro si concluda in tempi rapidi, e quello proprio della politica. Io spero che tutte le persone coinvolte possano dimostrare la propria innocenza, l’estraneità alle accuse. Se e quando questo avverrà saremo tutti contenti. Ciò significa che il ruolo della politica è solo quello di aspettare e sperare? Qualcuno nel mio partito, il PD, lo sostiene. Io penso invece che questo sia un grave errore che ci è costato ancor più perdita di fiducia, di credibilità e autorevolezza. La politica, quella di una forza progressista, deve essere trasparente, non autoreferenziale. È, ci si renda conto o meno, arroganza e superficialità rifiutarsi di spiegare, chiarire, discutere, rispondere ai cittadini.
La politica ha, meglio dovrebbe avere, regole più rigorose e pregnanti di quelle della magistratura. Un comportamento può non essere un reato ma un partito di sinistra plurale, progressista, non deve assumerlo. Mi spiego con un esempio: non possiamo essere subalterni ai poteri economici anche se le decisioni che ci chiedono non costituissero reato. Dobbiamo avere rapporti corretti con il mondo dell’economia, ascoltare le esigenze degli imprenditori, ma la sinistra deve programmare, tenere presenti nelle sue scelte gli interessi collettivi, avere un rapporto con i lavoratori, con i sindacati. Non possiamo appiattirci sul solo mondo degli imprenditori, fare a gara con Salvini nelle campagne elettorali a visitare aziende e a farci fotografare con chi le dirige. È giusto farlo, ma contemporaneamente si devono incontrare i consigli di fabbrica, i rappresentanti sindacali. Il nostro sostegno, doveroso, all’economia e alle imprese deve sempre essere indirizzato a finalità sociali, al sostegno dell’occupazione, al diritto dei lavoratori alla sicurezza, alla tutela della salute dei cittadini.
Nella vicenda del famoso emendamento per lo smaltimento dei fanghi delle concerie ci sono, dal punto di vista politico, sottovalutazioni e sbagli da affrontare e correggere con chiarezza, diversi nel peso delle responsabilità, ma mi permetta di dire, generali: di chi ha firmato e presentato l’emendamento; di chi lo ha fatto votare senza verifica degli uffici competenti; dell’assessore all’ambiente che doveva essere presente (il presidente era assente perché alle prese con l’emergenza COVID) ed esprimere il parere della giunta regionale, che un paio di anni prima aveva ricevuto una valutazione di illegittimità su un testo simile; delle stesse opposizioni che avrebbero dovuto chiedere una valutazione degli uffici e un accertamento più attento e meno frettoloso. Ripeto, perché non voglio equivoci: responsabilità differenti. Le opposizioni non sono maggioranza, ma a tutti è richiesto più impegno e rigore. Ecco cosa intendo per compiti della politica, per confronto aperto e serio, per rapporto con i cittadini: quando si sbaglia, si deve riconoscerlo; chiedere scusa perché si è deluso qualcuno o, come in questo caso, molti; introdurre correzioni e cambiamenti. Se poi emergessero nel corso delle indagini responsabilità più consistenti, allora le misure nei confronti di chi è coinvolto dovrebbero essere più severe. Voglio dire che se si è rinviati a giudizio per reati gravi, non si può continuare a rivestire incarichi primari. Ora, però, non siamo a questi esiti e mi auguro che non ci si arrivi».