Fanno il giro del mondo le immagini dei corpi dei bambini annegati e ritrovati sulla spiaggia a Zuwara, in Libia, approdano sulle bacheche dei nostri social come sui bagnasciuga: impietose, ma passeggere. Come un segno inciso sulla sabbia attirano l’attenzione e scompaiono con la prossima onda. Non restano. Non restano mai perché siano le ultime, perché sia abbastanza, perché si dica basta, stavolta davvero.
Non hanno nome, non hanno volto, soprattutto, non hanno vita. Sono carcasse restituite dal mare, divorate dall’acqua e consumate dal sale, bambini che non sono più, anime spezzate al futuro da una guerra che miete vittime ma che non trova colpevoli, o peggio, li copre e persino li finanzia. Ogni parola che si proferisce all’indomani dell’ennesima tragedia suona dell’ipocrisia di chi la pronuncia.
Sono di ieri, 25 maggio, le frasi del Premier italiano Mario Draghi che, nel corso della conferenza stampa tenutasi successivamente al Consiglio Europeo di Bruxelles, ha condannato ciò che raccontano le drammatiche fotografie: «Le immagini di quei bimbi morti sono inaccettabili». Chissà che mentre le pronunciava sentisse – finalmente – il peso delle proprie responsabilità, la connivenza dei rapporti tra l’Italia e la Libia.
I bambini a Zuwara non giocano con la sabbia, non immaginano castelli, non guardano all’orizzonte. I loro occhi sono ormai opachi, cancellata ogni meraviglia, le loro forme si accomodano tra morbide dune senza respiro. Difficile credere che l’ex BCE riuscisse davvero a viverne tutta l’angoscia, che sentisse l’eco delle frasi pronunciate solo un mese fa alla presenza del Primo Ministro ad interim Abdul Hamid Dbeibah (da cui era in visita) a dargli tormento: «Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia».
Nell’articolo del 12 aprile scorso, in merito alla vicenda, la collega Giusy Santella scriveva: parole piatte, ferme, di chi pensa che si possa parlare di salvataggi per definire la condizione disumana di coloro che cercano di arrivare in Europa, vengono catturati dalle stesse milizie che guadagnano con il traffico di esseri umani e poi torturati e abusati nei centri di detenzione. Come se si potesse usare una parola come gestione per indicare violenze e soprusi, accompagnati da speronamenti e attacchi armati alle ONG che cercano di salvare vite. Attualmente, nei centri di detenzione ufficiali sono detenuti 4mila migranti, senza considerare quelli non ufficiali che sfuggono a qualsiasi forma di controllo.
Cosa è cambiato in poco più di quaranta giorni? Assolutamente nulla. Solo lo scorso anno – è bene ricordarlo – l’Italia rinnovava il memorandum firmato nel 2017 con la Libia, un accordo che finanzia le milizie locali affinché intercettino e detengano i migranti sul suolo africano senza concedere loro la speranza del mare. A nulla sono valsi i richiami dell’ONU, che ha ripetutamente accusato di traffico e detenzione di esseri umani lo Stato di Abdul Hamid Dbeibah. Draghi queste cose le sa e, consapevole del valore strategico dei rapporti tra Italia e Libia, le ignora.
In linea con la più classica delle narrazioni occidentali, dunque, il Premier versa lacrime facili sulle immagini di Zuwara che sconvolgono l’opinione pubblica mentre arma chi ne è responsabile. I richiami alla UE, alla coesione degli Stati Membri verso la soluzione del dramma sono senz’altro sensati, ma perdono di significato quando il Parlamento evita di lanciare il proprio, inequivocabile segnale di contrasto a questo stato di cose.
Minniti prima, Lamorgese poi, il memorandum avrebbe dovuto subire sostanziali modifiche: sono trascorsi già quattro anni, il dramma del Mediterraneo non ha mai smesso di mietere vittime, tutto è rimasto com’era. Draghi condanna la UE ma dimentica che l’Europa comincia da noi, dalle nostre coste, le più vicine alle speranze di chi prova a partire.
A chi importa, allora, dei bambini della spiaggia di Zuwara, delle vite spezzate dai lager, del dramma di milioni di esseri umani colpevoli solo di essere nati dalla parte sbagliata del mondo? In tal senso, il pensiero che sentiamo di voler condividere è quello di Cecilia Strada: «Non la pubblicherò, perché mi dà la nausea. Perché se fosse mio figlio, morto, non lo vorrei in pasto al mondo. Non la pubblicherò perché ho già passato del tempo, nella mia vita, a rispondere a quelli che “Eh ma è una foto finta, un bambolotto, guarda com’è bianco!”, spiegando che è quello che l’acqua fa a un corpo, quando ci anneghi dentro. L’ho già fatto, e non lo voglio fare più. Non la pubblicherò perché io non lo so, sinceramente non lo so, se ha senso pubblicare queste foto: colpiscono chi vorrebbe affondare i barconi, fanno cambiare idea? O forse colpiscono solo – e fanno male – chi è già sensibile? Non la pubblico, ma è successo. Succede. Succederà».
Succede. Succederà. Draghi o chi per lui si commuoverà ancora, poi la giostra del mondo andrà avanti così com’è, con tutta la sua ipocrisia, con le armi vendute, le milizie addestrate, gli innocenti ignorati. Perché sulla pelle delle popolazioni migranti non si combatte solo una guerra sui territori, si vince la poltrona che conta, si punta la fiche che più conta al giro della roulette mai doma, quella elettorale.
«Le immagini di quei bimbi morti sulla spiaggia a Zuwara sono inaccettabili». Draghi e la UE, però, non hanno diritto di rivendicarne le lacrime.