Occhi penetranti, carattere inquieto e una vita difficile. Non è Van Gogh, bensì Antonio Ligabue (Zurigo, 1899 – Gualtieri, 1965), pittore e scultore tra i più peculiari del Novecento italiano. È a lui che è dedicata la mostra, all’interno del prestigioso Palazzo Tarasconi di Parma, Ligabue e Vitaloni – Dare voce alla Natura, prevista inizialmente tra aprile e dicembre 2020 e in seguito riprogrammata e posticipata fino al 30 maggio 2021 a causa dell’emergenza Covid-19.
La rassegna è stata ideata da Augusto Agosta Tota, Marzio Dall’Acqua e Vittorio Sgarbi e organizzata e promossa dal Centro Studi e Archivio Antonio Ligabue di Parma e dalla Fondazione Archivio Antonio Ligabue di Parma, parte delle iniziative di Parma Capitale Italiana della Cultura 2020-2021. Un viaggio alla scoperta di un artista poliedrico e originale, attraverso 83 dipinti e 4 sculture, spaziando dagli autoritratti, agli animali, ai paesaggi. Ma non solo. Posta a confronto, ci sarà una sezione con 15 opere plastiche dello scultore contemporaneo Michele Vitaloni (Milano, 1967), notevole esponente della Wildlife Art e dell’iperrealismo scultoreo.
Come buona parte degli artisti, Antonio Ligabue fu l’uomo sbagliato nell’epoca sbagliata. Partendo da un’infanzia travagliata, segnata da disagi economici, tre cognomi differenti – prima quello della madre, Costa, poi quello del patrigno Laccabue, che lui fece cambiare in seguito in Ligabue – e una famiglia affidataria che però decise di consegnarlo a un istituto per la cura di ragazzi disagiati. Tra i motivi vi erano senza dubbio quei comportamenti tra lo scostante e l’aggressivo, oltre a vari problemi fisici che gli causarono malattie come rachitismo e gozzo.
L’unico conforto per il giovane era un talento innato per il disegno, la pittura e la scultura. Fu, però, grazie allo scultore e pittore Renato Marino Mazzacurati, il quale, nel 1928, intuì le sue potenzialità e lo incoraggiò e aiutò a proseguire, che, tra sofferenze e continui ricoveri in ospedali psichiatrici, Ligabue mise in piedi una produzione artistica dal forte potere evocativo, prediligendo animali, spesso esotici, paesaggi, scene di vita quotidiana o di caccia. Gli anni Quaranta furono soprattutto quelli degli autoritratti, al cui interno si evincono tutte le emozioni contrastanti che l’autore non era capace di esprimere a parole, i tormenti e il suo incommensurabile desiderio di affetto umano. Attraverso lo studio delle opere di artisti quali Vincent van Gogh, Gustav Klimt, dei fauves e degli espressionisti tedeschi – evidenti le influenze iconografiche e stilistiche – Ligabue fece proprio l’utilizzo del colore vivido, dai tratti espressionistici e di una pennellata impetuosa e densa.
Se la mostra permette una migrazione all’interno della mente di quest’uomo tanto geniale quanto alienato, sulla stessa lunghezza d’onda viaggia il film Volevo nascondermi (2020), a lui dedicato, pluripremiato ai David di Donatello di quest’anno. Diretta da Giorgio Diritti, la pellicola è stata premiata al Festival internazionale del cinema di Berlino, ha ottenuto una candidatura agli European Film Awards e ben quindici nomination ai David di Donatello, vincendo per Miglior film, Miglior regista, Miglior attore protagonista a Elio Germano, Miglior autore della fotografia a Matteo Cocco, Miglior scenografo a Ludovica Ferrario, Alessandra Mura e Paola Zamagni, Miglior acconciatore ad Aldo Signoretti, Miglior suono.
Protagonista nel ruolo di Ligabue è uno strepitoso Elio Germano, ormai garanzia del cinema italiano di qualità. La performance gli è valsa anche l’Orso d’argento come miglior attore al Festival di Berlino e non ci sorprende affatto poiché Germano è riuscito a portare sul grande schermo un pittore, anzi, un uomo, dall’incredibile sofferenza interiore, incompreso dalla maggioranza dei suoi contemporanei, solo. Ha fatto suo l’artista, senz’altro coadiuvato dalla maestria di trucco e costumi, ma con un’enfasi tipica dei personaggi che soltanto lui sa portare in scena. Come dimenticare, del resto, i recenti L’incredibile storia dell’Isola delle Rose e Favolacce.
Un biopic che, attraverso flashback che mostrano episodi delle sue origini e della sua ascesa/discesa, ripercorre la vita dell’artista in maniera cruda e struggente e il suo rapporto con l’arte, nella società contadina emiliana di epoca fascista. Una trasposizione sullo schermo era però già stata realizzata in passato: Ligabue, uno sceneggiato di tre puntate del 1977, per la regia di Salvatore Nocita. Nei panni dell’artista c’era Flavio Bucci, scomparso nel febbraio 2020, ed è per questo che l’esposizione è dedicata alla sua memoria.
Nel percorso assisteremo alla vastissima produzione di Ligabue di animali esotici e domestici, come tigri, iene, leopardi, leoni, cavalli, gorilla, con cui si identificava a tal punto da imitarne le movenze e i versi. Il mondo naturale e quello animale occupano un posto d’onore nella poetica del pittore/scultore, forse perché, per citare le parole del critico Sgarbi, simboli di forza, di energia, emblemi di un desiderio di libertà, di riscatto. Uno dei suoi capolavori è, per l’appunto, Leopardo su roccia. Gli autoritratti, invece, trasmettono tutto il suo malessere, l’angoscia, la frustrazione, esprimono – sempre per citare Sgarbi – la necessità di capirsi meglio, in un processo di autoanalisi.
Il percorso prevede poi il confronto con le opere di Vitaloni, indagando quella parte animale dell’essere umano. Tutto all’interno di esperienza sensoriale su più livelli, grazie all’allestimento progettato da Cesare Inzerillo, al fine di creare un’atmosfera di intima e impattante fusione fra pittura e scultura.