Il recente dibattito sull’approvazione del ddl Zan ci ha offerto un ottimo spunto di riflessione sull’utilizzo dello strumento penale nel nostro ordinamento e sulla sua effettiva incisività su temi che intersecano spesso scale di valori non ancora pienamente affermatesi nella società odierna.
La sanzione penale e, in particolare, la sua forma più dura e inflessibile, il carcere, dovrebbe essere utilizzata come extrema ratio esclusivamente in quelle situazioni in cui non siano utilizzabili altri strumenti di regolazione sociale che non incidano necessariamente sulla libertà personale, ma si facciano portatori dei bisogni fondamentali dell’individuo. Eppure – nonostante le affermazioni di principio contrarie che la individuano come strumento sussidiario –, essa si espande sempre di più in molti Paesi europei, tra cui l’Italia, dove i cittadini sembrano percepire lo strumento come l’unico adoperabile per affermare l’importanza dei beni giuridici di cui si chiede tutela.
La pena, infatti, è diventata tecnica ordinaria di politica criminale, oltre che strumento di gestione e di controllo dei territori. Alla domanda di sicurezza proveniente da più parti, si risponde quasi sempre inasprendo le sanzioni e fagocitando tutte le contraddizioni con la repressione. Ecco che, allora, aumentano gli esempi di norme penali che non solo restano inattuate e/o inosservate, ma che in particolare non sono idonee a raggiungere i fini per cui sono state introdotte. Queste assumono, nei confronti dei cittadini, una funzione di “rassicurazione” di aver preso in carico un fenomeno di forte allarme sociale. Tuttavia, se viene meno la ragione giustificatrice e l’utilità preventiva della sanzione, essa resta mera rappresentazione dell’esercizio di dominio e coercizione da parte dello Stato.
Se è vero che una legge può rappresentare un segnale culturale sulla scala di valori che il Parlamento decide di tutelare, bisogna però ricordarsi che legiferare non è né fare ideologia né pedagogia, utilizzando il reato e la pena per imporre valori. Il diritto penale “simbolico”, infatti, si dimostra sempre più incapace di innescare processi di trasformazione socio-culturale, che necessitano invece di più incisivi strumenti di politica sociale.
Lungi da noi mettere in discussione le legittime pretese di chi vive quotidianamente soprusi e discriminazioni sulla sua pelle e vede nel ddl Zan uno spiraglio di luce, ma in materie come quelle dell’omotransfobia – fenomeno molto più diffuso di quello che si pensa e che non si può ridurre alle famose “mele marce” che si intende colpire – i valori da tutelare potranno essere messi in sicurezza solo se pienamente affermati nel dibattito pubblico. È probabilmente questo il problema principale: le sanzioni penali rischiano di apparire incoerenti se introdotte in una realtà come quella attuale in cui sono i vertici politici innanzitutto ad avallare meccanismi patriarcali e di discriminazione.
Fustigarsi ogni qual volta sopraggiunge il 25 novembre, condannare a gran voce – ma solo formalmente – la violenza sulle donne e farsi promotori della parità di genere ha poco senso se le retribuzioni di queste ultime sono minori, se esse hanno meno accesso al mondo del lavoro, se su di loro grava totalmente l’onere di assistenza e cura, in una considerazione del corpo femminile come semplice riproduttore di prole. Allo stesso modo, farsi promotori di discriminazioni e linguaggi dell’odio non è il presupposto necessario per approvare il ddl Zan illudendosi che l’utilizzo dello strumento penale possa funzionare da deterrente senza portare avanti la rivoluzione culturale di cui abbiamo bisogno.
La pena detentiva già di per sé ha oramai perso qualsiasi funzione preventiva e/o deterrente, considerato che le carceri non sono altro che microcosmi creatori di criminalità e a dimostrarcelo sono gli altissimi tassi di recidiva per chi ha già scontato una pena. Tale discorso vale ancora di più per un sistema di valori che non è per nulla assimilato né radicato nella coscienza sociale. Un cambiamento culturale ed educativo comincia dal basso e non imponendo una norma e fingendo che essa possa trasmettere ai consociati il disvalore di un dato comportamento così impregnato nella nostra cultura.
Riabituare le persone all’idea che le contraddizioni si risolvono sui territori, con l’inclusione e le politiche di comunità, è il primo passo per diffondere valori di reale uguaglianza. Fino ad allora, le enunciazioni di principio rimarranno tali e il sentire comune continuerà ad avvertire il carcere come soluzione a tutti i problemi. Se qualsiasi tipo di modulazione alla sanzione storica della detenzione viene tacciata di “perbenismo”, o indifferenza nei confronti di determinati valori, e se si continuerà a pensare che con la sola chiusura delle imponenti porte degli istituti di pena si possa costruire un mondo migliore, ci sbagliamo di grosso. La strada è lunga, ma non comincia da lì.