Cibo: forse il soggetto più amato dagli italiani, ma anche il più discusso. Soprattutto quando “Cibo” non è solo a tavola, ma per le strade. Si chiama Pier Paolo Spinazzè ed è un soldato attivo nella lotta contro l’odio. Le sue armi sono tenacia, creatività e bombolette spray di tutti i colori. L’obiettivo? Contribuire a scrivere una società più umana e… più colorata.
Impegnato da più di dieci anni nel veronese, cancella svastiche, croci celtiche e messaggi di estrema destra con immagini di cibo, appunto: perché la cucina unisce, lì dove l’estremismo separa. Abbiamo voluto incontrarlo per chiedergli personalmente di raccontarci la sua storia: come nasce, cosa lo ispira, cosa si aspetta e come risponde a critiche e querele dei nostri politici.
La tua battaglia inizia da un drammatico episodio personale. Potresti condividere con noi qual è stata la scintilla che ha infiammato la tua voglia di giustizia?
«Iniziai a capire che dovevo fare qualcosa quando un mio compagno di classe fu ucciso per una sigaretta. Nel tempo, è cresciuto il mio senso civico e la voglia di dare un contributo. Ero stufo di vedere svastiche per le strade che rovinavano la mia città».
Capita che gli haters imbrattino i tuoi murales, altrettante volte torni a ripulire con lavori nuovi o aggiunte di colore. A causa di questo braccio di ferro, hai ricevuto intimidazioni, bombe carta e minacce sotto casa. Cosa ti spinge a continuare?
«Il fatto che me li rovinino porta a una performance super interessante. L’odio è un ingrediente. Io mi mostro, mostro che non ho paura di loro e che qualsiasi cosa facciano finiscono solo per contribuire a creare murales sempre più grandi. Diventa una sfida di creatività: loro sporcano, io torno lì e ogni volta aggiungo qualcosa, allargo il lavoro, portando un contributo alla comunità. L’opera diventa un presidio del territorio.
Con i fascisti ci gioco: è pericoloso andare a stimolare un creativo, perché il creativo saprà sempre come dare fastidio».
Cosa rispondi a chi, invece, crede nel potere dell’indifferenza: Se li ignori, prima o poi smetteranno?
«È proprio questo il punto: se ci sono stati i campi di concentramento è perché la gente ignorava i nazisti, li sottovalutava. Io, per quanto faccia delle forme di formaggio, dei dolcetti carini, ho la stessa perseveranza che avevano i partigiani. Cambiano gli strumenti, cambiano i tempi: non imbraccerò mai il fucile, ma la bomboletta sì perché è il mio strumento. E questo potrebbe farlo chiunque, sotto altre forme. Ci sono tantissimi volontari che si danno da fare per il proprio territorio. Ogni cittadino, con quello che sa, può fare qualcosa di positivo per la collettività».
Hai viaggiato in tutta Italia ed Europa per cancellare l’odio dalle strade a colpi di spray. Secondo la tua esperienza diretta, quanto è forte, oggi, l’influenza del fascismo? Perché, accanto a temi sempre più sentiti come l’inclusione, i messaggi degli haters razzisti sono ancora così numerosi?
«Teniamo presente che i social amplificano la diffusione dell’astio. Internet dà voce a una valanga di persone, tra queste ci sono molti radicali di destra. E i movimenti di destra hanno dato un forte colpo di coda. La tematica dei social è abbastanza complicata. Io, ad esempio, cerco di riempirli con qualcosa di positivo, anche se cancello svastiche da anni, ma ho deciso di diffondere colore e messaggi costruttivi».
A proposito di social, in riferimento a tuoi vecchi post Selvaggia Lucarelli ti accusava di essere un “odiatore” che combatte gli haters. È una figura molto diversa da quella dell’eroe tenace che ci raccontano i tuoi murales. Cosa hai da dire in merito?
«Non credo di dovermi giustificare: io dimostro quello in cui credo e quello che faccio tutti i giorni con il mio lavoro, non con post emozionali. Le persone vanno valutate per il lavoro che fanno. E io dimostro la mia integrità ogni giorno, per strada».
Lo scorso anno hai raccontato le meraviglie del caffè napoletano sulla carrozzeria del Tram 1 di Napoli, grazie a una collaborazione con il Comune e Caffè Borbone. La tua arte viaggia – letteralmente – e diventa un ponte che unisce le fratture causate dall’odio fascista. Sei promotore dell’orgoglio culinario nostrano, eppure diversi politici italiani ti hanno querelato. Perché un messaggio di pace e unione fa così paura?
«Beh, loro volevano togliermi dalle scuole, cosa che non gli è riuscita perché è anticostituzionale. Quando le scuole mi chiamano cerco sempre di andare, ovviamente pro bono, come tutto ciò che faccio per il sociale. L’obiettivo è trattare temi un po’ troppo seri con più leggerezza per avvicinare anche i giovani all’antifascismo, un valore che non deve assolutamente venir meno. L’antifascismo è ciò che ha portato alla Repubblica Italiana. È la nostra storia più recente e va ricordata: i partigiani stanno morendo, i reduci stanno morendo, quindi se non portiamo noi avanti la memoria, va persa. A me capita spesso di intervenire in convegni in cui si parla di queste cose e i giovani mancano, ma mancano perché non c’è un linguaggio corretto. E io cerco di portare questo messaggio in modo diverso. Questo dà fastidio a molti politici, soprattutto politici veronesi leghisti, ché a loro fa molto piacere avere i voti dei neofascisti. Provano a querelarmi ma hanno tutti perso: sono incensurato».
Come molti artisti, il tuo lavoro è supportato dalle donazioni dei patrons. Cosa deve fare chi vuole sostenerti?
«Grazie ai miei followers riesco a comprare i colori e a coprire le spese legali. Patreon è una bellissima piattaforma che all’estero funziona molto perché dà la possibilità a chi ha un progetto di presentarlo e di farsi finanziare. A differenza di altri siti di co-founding prevede un abbonamento: bisogna fidelizzare il “mecenate”, dargli dei benefits e tenerlo aggiornato sui progressi. Questo aiuta molto, specialmente in un periodo in cui è difficile lavorare. Si tratta di piccole cifre. Ognuno sceglie quello che può dare a seconda del proprio cuore e del proprio portafogli».
Sul tuo profilo Instagram, hai commentato la distruzione di un muro su cui era impresso un tuo lavoro con: L’arte è effimera. Il tuo messaggio, però, resta…
«Sì, il bello della street art è che scompare, ma rimane: le persone la ricordano. Vale il doppio. I greci valutavano le forme d’arte a seconda del loro peso. L’architettura pesava molto, restava nel tempo; al contrario, il canto non pesava niente. Dal momento in cui finivi di cantare, quella forma d’arte non c’era più. Per loro aveva molto valore il fatto che fosse effimera: dovevi gustartela in quel momento. Per l’arte di strada è lo stesso, solo che ci aggiungi anche il luogo. Per esempio, quando devo scegliere il soggetto valuto il posto in cui sto lavorando: cosa si coltiva, qual è il periodo dell’anno. Anche il quando e il dove, essendo cose transitorie e che non puoi spostare, vanno per così dire messe a menù: bisogna farci una ricetta».
E cosa bolle in pentola per il futuro?
«Beh, in questo periodo di pandemia ho fatto un libro per gli Stati Uniti, illustrazioni, adesivi, quadri. Anche i clienti non si sono fermati e io ho spostato la mia attività al computer, concentrandomi sulla progettazione dei prossimi lavori. Sono un libero professionista da molto tempo, di crisi ne ho avute e posso dire che se ne esce. Bisogna cercare di sfruttare le occasioni negative per fare cose belle. Avevo una gran voglia di fare quadri e ho colto il momento. Forse si farà una mostra nel 2022».