Come abbiamo più volte sottolineato, il carcere è un luogo in cui il contagio da Covid-19 corre veloce a causa delle condizioni igienico-sanitarie precarie, della promiscuità degli spazi e del sovraffollamento. Basti pensare che, a un anno dallo scoppio della pandemia, le persone detenute sono ancora più di 53mila, una cifra che supera di gran lunga la capienza regolamentare (circa 50mila unità) e quella dei posti effettivamente disponibili (circa 47mila). Tale situazione ha provocato decine di focolai, 12 morti per coronavirus tra il personale di polizia penitenziaria e 10 tra la popolazione detenuta.
Gli ultimi dati diffusi nel mese di aprile parlano di più di 800 detenuti positivi e lo stesso dicasi per il personale penitenziario. Ciò significa che ogni 10mila persone si rilevano 157.6 casi di Covid, con una percentuale molto più alta di quella presente nel mondo libero, in cui si contano 96 casi ogni 10mila persone.
Dopo forti pressioni provenienti dalle realtà impegnate nel mondo carcerario, il Ministero della Salute ha inserito la popolazione detenuta e il personale penitenziario tra le categorie prioritarie cui destinare la vaccinazione che, però, in questi luoghi procede ancora a rilento e in maniera molto differenziata da regione a regione. In alcuni territori, infatti, la campagna vaccinale non è ancora iniziata, mentre in aree come Veneto e Lombardia è cominciata già a partire dal mese di marzo. Al 27 aprile, più di 1 detenuto su 5 ha ricevuto la prima dose di vaccino, per un totale di 15mila somministrazioni (20mila, invece, per il personale penitenziario).
Nonostante si tratti di una scelta ben ponderata, scaturita dalla valutazione dei rischi che si annidano in questi luoghi, essa non ha mancato di suscitare polemiche da parte dei soliti populisti. Matteo Salvini ha approfittato anche stavolta per fare propaganda e qualche settimana fa, con un tweet, si è scagliato contro i Presidenti di Lazio e Campania perché, a suo dire, vogliono vaccinare i detenuti prima di anziani e persone disabili.
Si tratta di un’affermazione non rispondente al vero sotto vari punti di vista: innanzitutto, non è stabilita alcuna priorità rispetto ad anziani e persone disabili, anch’essi categorie da vaccinare prioritariamente. Inoltre, come già detto, la campagna vaccinale negli istituti di pena è già iniziata a marzo in altre regioni e non ha riguardato la sola popolazione detenuta – che è più comodo tirare in ballo per suscitare l’indignazione dell’opinione pubblica con la solita dicotomia buoni vs cattivi – ma chiunque entri in carcere a vario titolo, compreso il corpo di polizia penitenziaria della cui divisa Matteo Salvini si è più volte fregiato. Ciò dimostra che la strenua difesa dell’ex Ministro dell’Interno nei confronti della polizia penitenziaria non è altro che mera propaganda per alimentare la narrazione guardie e ladri che porta avanti da tempo e non reale interesse. Se così fosse, infatti, non metterebbe in dubbio la necessità di vaccinare chi entra in carcere, essendo questi luoghi pericolosissimi.
Oltretutto, immunizzare i luoghi in cui il rischio di contagio è maggiore significa diminuire l’eventuale pressione sugli ospedali – anche considerando che gli istituti di pena sono affollati da molte persone anziane e con numerose patologie – e, quindi, proteggere l’intera popolazione. Non si tratta, dunque, di scelte effettuate sulla base di simpatie e/o disinteresse nei confronti di una categoria piuttosto che di un’altra.
Anche la scelta di prediligere, laddove possibile, il vaccino monodose non risponde ad alcuna volontà di creare privilegi, bensì a una semplice esigenza di carattere pratico: chi è detenuto può essere sottoposto a trasferimenti, raggiungere il fine pena o comunque modificare la propria situazione giuridica in vari modi. Una sola somministrazione garantisce che la protezione sia immediata e che dopo non risulti difficoltoso individuare nuovamente l’ASL territoriale di appartenenza. Inoltre, completare le vaccinazioni in carcere permetterebbe, almeno in parte, un flebile ritorno alla normalità, in particolare per quanto riguarda i contatti con l’esterno.
Le persone recluse, infatti, da circa un anno vivono un regime di detenzione ben diverso da quello sancito dalla nostra Costituzione: i colloqui sono stati interrotti – non ritenuti, in base alle Faq rilasciate dalla Presidenza del Consiglio, uno spostamento necessario neppure quando a noi è stato concesso fare visita a parenti e amici durante le festività e ripresi in molte regioni solo pochi giorni fa –, sospese le attività di socialità e volontariato, cancellata qualsiasi cosa che non renda la detenzione mera prigionia. Proteggere questi luoghi significa, quindi, anche regalare un briciolo di spensieratezza a chi – a differenza di quanti sono fuori – non ha vissuto alcuna apertura né concessione, né ha avuto alcuna possibilità di incontrare con serenità i propri cari.
A essere in ballo è la salute di tutti e di chi, come noi – nonostante a molti non piaccia – è un essere umano, anche se detenuto. Insomma, non solo risulta controproducente creare sterili polemiche su tali argomenti, ma ciò dimostra che, ancora una volta, siamo lontani dalla tanto decantata civiltà.