Il nome di Maddalena Cerasuolo veglia su Napoli dall’alto del ponte a lei dedicato, sulla Sanità. La partigiana che salvò la città durante le Quattro Giornate del 1943, nel pieno della Seconda guerra mondiale, è il simbolo della resistenza partenopea, la prima, vera azione popolare di rivolta al fascismo. La Liberazione, all’ombra del Vesuvio, cominciava con due anni d’anticipo.
A settantasei primavere dal 25 aprile del 1945, il ricordo dei partigiani che conquistarono la libertà di cui ancora godiamo è affidato alle parole di chi, quelle storie, ha potuto ascoltarle ogni giorno seduto al tavolo della cucina. Gennaro Morgese è il figlio di Maddalena, un vero e proprio avamposto di resistenza e cultura, dedito alla divulgazione degli insegnamenti di quella casa dove – come ci ha confessato in un’intervista esclusiva – si cresceva a pane e Quattro Giornate.
Con quali insegnamenti e tra quali storie si cresce in una casa di partigiani, soprattutto, di una partigiana come Maddalena Cerasuolo?
«Si cresce a pane e Quattro Giornate, pane e Resistenza. Anche perché non si tratta soltanto di mia madre, ma pure di suo padre, nonno Carlo, comandante dei partigiani di Materdei – medaglia d’argento della Prima guerra mondiale per aver combattuto in Africa – e di Gennaro Capuozzo, cugino di primo grado di mamma, medaglia d’oro alle Quattro Giornate, alla memoria.
Era il 29 settembre del 1943, forse il 28. Mamma venne superata, a via Santa Teresa da un sidecar guidato da due ufficiali tedeschi, i quali fermarono un vecchio cercando di sapere dove si trovasse il Ponte della Sanità. Vide tutta la scena. Allora corse a casa ad avvisare il padre che avvertendo il pericolo le ordinò: Lenù – Lenuccia, la chiamava così – vai a chiamà ‘e guagliune!.
Arrivati sul posto trovarono un foro, probabilmente provocato da una bomba, nel quale si nascondeva un tedesco con un filo di esplosivo che andava da lì all’altra parte del ponte. Partì una sparatoria, gli uni contro gli altri, e il soldato nemico fu ucciso. Il secondo ufficiale nazista tentò di raggiungere il detonatore, ma il tenente Dino del Prete fu più veloce e riuscì a strappare i fili.
Mia madre è l’unica donna della Quattro Giornate di Napoli ad aver ottenuto la medaglia di bronzo al valor militare, che in realtà ci sta un po’ stretta, dal momento che senza il suo intervento il Ponte della Sanità sarebbe saltato per aria e la città sarebbe andata letteralmente a sete».
Al contrario, però, il giusto riconoscimento glielo hanno sempre tributato i napoletani. Perché crede sia rimasta nel cuore della gente e, dunque, nella storia di Napoli?
«Perché era una donna del popolo, viveva a Materdei, ai margini del centro storico. In più era molto materna, una volta difese dei bambini da un pedofilo, tra cui la mia sorella più piccola, rimediando una coltellata. In quell’occasione rischiò di morire. Era un donna generosa. Come sa, oltre che partigiana, operò con i servizi segreti britannici. Il 15 ottobre 1943, era di sera, lei, mio nonno, la nonna e i fratelli erano a cena quando bussarono alla porta. Abitavano in un basso. Due signori alti, magri, ben vestiti, erano inglesi, si annunciarono chiedendo di lei. Entrarono in casa e si rivolsero direttamente alla mamma. Erano venuti a conoscenza del suo impegno per le Quattro Giornate e, ora, le chiedevano di continuare nel suo percorso di lotta per la libertà in alcune operazioni di spionaggio. Lenuccia non rispose, si rivolse al padre. All’epoca, le donne non avevano voce in capitolo come oggi. Il nonno le sorrise e le disse: Vai! Ho una sola raccomandazione, nun portà scuorno a casa. Così partì.
Era una donna romantica, la affascinavano gli abiti delle attrici americane nei film. Comprava le stoffe e li riproduceva lei stessa, uguali a quelli del cinema. Questa passione, probabilmente, le salvò la vita durante un’operazione a Genova. Era imbarcata su di un sommergibile. Arrivata nel golfo ligure svestì la tuta in dotazione e indossò un cappotto rosso, il capello, la veletta, le scarpe col tacco e la borsetta sotto al braccio. Doveva avere un contatto con dei partigiani, invece, fu raggiunta da una jeep con a bordo due fascisti e due tedeschi. Questi la interrogarono, le diedero della puttana, della spia. Lei, però, era stata previdente e aveva portato con sé la cartolina di uno zio che viveva a Sanremo. Disse ai soldati che la minacciavano di aver perso l’intera famiglia sotto le bombe, che quello zio era l’unico parente rimastole e che voleva ricongiungersi con lui. Quella notte percorsero ben 149 chilometri per confermare la sua versione dei fatti. Una volta arrivati alla porta di zio Luigi, mamma inscenò la drammatica situazione che aveva appena raccontato. Fu talmente convincente che lo zio cominciò a piangere e i fascisti la liberarono. Non prima però di un’ultima minaccia, ossia che se avessero scoperto di essere stati imbrogliati, sarebbero tornati a fucilare entrambi. Poi, la storia la conosciamo e i fascisti scomparvero come nebbia al sole, da bravi vigliacchi».
Non crede che le nuove generazioni stiano dimenticando ciò che ha significato la Liberazione?
«Senza dubbio. Dipende tutto da noi, però. Ho sessantotto anni e andrò avanti finché ne avrò la possibilità, come ho sempre fatto. Nel 2018, al MANN presentai una mostra chiamata Hercules alla guerra con giornali dell’epoca, fotografie della città distrutta dalle bombe. L’idea era parlare alle nuove generazioni. Allo stesso modo, promossi un confronto di quindici fotografie della città scattate rispettivamente nel 1943 e, poi, nel 2013, settant’anni dopo. La stessa immagine messa a fianco. Ho fatto il giro di diverse scuole napoletane. Faccio parte del comitato provinciale dell’ANPI, ma mi piace prendere l’iniziativa».
La politica odierna dibatte molto sul 25 aprile. C’è stato anche chi – dai partiti ai giornali – l’ha definita una festa divisiva. Lei come la pensa?
«Questi soggetti usano certe terminologie e non lo fanno per caso. Alcuni direttori di giornale dimenticano che se oggi possono fare i gradassi lo devono a quella gente che ha combattuto e ci ha rimesso la pelle. Per parlare di festa divisiva bisogna essere in malafede, significa banalizzare un’azione che ha visto centinaia di migliaia di donne e uomini perdere la vita. L’unica cosa divisiva che noto è la loro testa a separargli le orecchie. C’è anche un altro aspetto, però, che mi dà fastidio: il Ministro dei Beni Culturali Franceschini ha stanziato 18 milioni di euro per edificare il museo della Resistenza a Milano anziché a Napoli, la prima città dove tutto ebbe inizio. Ma il merito di aver ispirato la prima reazione al fascismo non può togliercelo nessuno, anche se i media non ne parlano.
Noi napoletani ci sottovalutiamo. Basti pensare al caso recente di Corrado Augias, lasciato un’ora in tv a parlare della città attraverso le vicende di Cutolo, del contrabbando, di Maradona per quanto concerne la droga. È una narrazione a senso unico. È vergognoso. Com’è vergognoso che non si sia mai pensato di dedicare un museo alle Quattro Giornate che, le assicuro, vedrebbe la partecipazione di centinaia napoletani, dei comitati, delle associazioni. Perché è la nostra storia. È qualcosa che appartiene a tutti».