Sono diversi, provengono da un altro luogo, hanno un’estrazione sociale differente e un background ignoto: i migranti fanno paura principalmente perché sono la rappresentazione dell’altro, dello sconosciuto, che può essere tanto amico quanto pericoloso nemico. Il loro arrivo, per tale motivo, fa sempre un gran clamore.
Anche negli Stati Uniti si torna a parlare di migranti. Biden, in anticipo rispetto allo scadere dei suoi primi cento giorni di mandato, si ritrova ad affrontare la più grande crisi al confine degli ultimi vent’anni. In queste settimane, infatti, i numeri di immigrazioni clandestine sono aumentati esponenzialmente. Nel solo mese di febbraio, ad esempio, sono state arrestate più di 100mila persone che tentavano di attraversare il confine tra Messico e Texas. Tra queste, quasi 10mila minori. A marzo, invece, i minori fermati sono stati 17mila, un numero mai visto prima.
Quella che il neopresidente si trova a fronteggiare è una crisi umanitaria a tutti gli effetti. Alle prese con la somministrazione dei vaccini e dei danni economici causati dal COVID-19, la gestione della border crisis è stata affidata alla vicepresidente, che dovrà fare i conti con i danni causati dall’amministrazione precedente e dalla pandemia. Lo scorso anno, infatti, le migrazioni avevano subito una forte interruzione: si trattava della questione su cui Trump si era accanito più duramente. Così, complice il coronavirus, era riuscito a provocare una battuta d’arresto sulle partenze dal Sud America dapprima grazie alle sanzioni imposte al Messico e, successivamente, alla crisi sanitaria globale.
Adesso, invece, tra l’arrivo di Biden e la luce in fondo al tunnel finalmente visibile grazie alla velocità di somministrazione dei vaccini, la ripresa dei flussi migratori è stata immediata. Il compito di Harris e di tutta l’amministrazione, dunque, sarà, da un lato, rafforzare i controlli al confine e, dall’altro, svolgere numerose azioni diplomatiche con i Paesi di provenienza per affrontare le cause dell’immigrazione, creando una strategia efficace a lungo termine. Nella gestione dell’emergenza, però, le decisioni della Casa Bianca hanno già lasciato a desiderare. In principio, Biden ha negato l’esistenza di una urgenza vera e propria. Poi, ha promesso accoglienza ai migranti, ma in un altro momento, chiedendo di rimandare i viaggi in tempi meno difficili per gli USA.
L’approccio del Presidente, dunque, non è sembrato molto diverso da quello del suo predecessore. Donald Trump aveva attuato una politica soprannominata Resta in Messico, secondo la quale i richiedenti asilo dovevano attendere fuori dai confini statunitensi che le proprie richieste fossero valutate. Sotto la guida di Biden, al momento, è cambiato poco: se con Trump riusciva ad attraversare il confine solo il 15% dei richiedenti asilo, con il nuovo inquilino della Casa Bianca la situazione è migliorata, di poco, giungendo al 28%. Anche Biden, in effetti, si sta servendo dell’ordine esecutivo Titolo 42, che dovrebbe regolare i viaggi non necessari durante la pandemia. In questo modo, la polizia di frontiera è in grado di respingere numerose richieste.
La linea politica scelta dall’amministrazione sembra quella di voler rimandare il più possibile il problema migratorio, una questione troppo ingombrante, eppure considerata poco urgente. In effetti, gli Stati Uniti avrebbero bisogno di un profondo cambiamento nelle strutture e nelle politiche che gestiscono l’immigrazione. L’inadeguatezza delle strutture, in particolare, non rappresenta una novità, ciononostante fino a ora si è fatto ben poco per attrezzare la nazione per una più efficiente e umanitaria accoglienza che non rimandi continuamente a un futuro indefinito l’ospitalità nei confronti di chi scappa da realtà spaventose. Intanto, mentre ai piani alti si decide se sia il momento giusto per discutere sul da farsi, l’afflusso degli ultimi due mesi è cresciuto esponenzialmente e i centri di accoglienza sono sempre di meno.
Numerosi giornalisti e politici hanno denunciato le condizioni in cui si ritrovano i migranti quando, attraversato il confine, finiscono nei centri detentivi. La loro situazione, tuttavia, è solo la punta di un iceberg molto più grande. Uomini e donne ammassati in luoghi insufficienti, in condizioni igieniche inaccettabili e con minori reclusi come fossero criminali. Quella in corso al confine con il Messico è più di una grave crisi umanitaria, ma se centinaia di persone ogni giorno scelgono di intraprendere un viaggio fatto di così poche speranze, ciò da cui scappano deve essere peggio.
È proprio questo il punto più facilmente trascurato quando si affronta la questione migranti. Nei ricchi Paesi di arrivo, che si tratti degli Stati Uniti o dell’Italia, si percepiscono solo le conseguenze locali degli arrivi e non le cause di partenza, delle quali si realizza poco e niente. La percezione, o meglio la falsa percezione, rappresenta in questi casi un fattore determinante nella genesi dell’opinione pubblica. Numerosi studi provano, infatti, che si tratta del tema più discusso e peggio percepito. Da un lato, l’esperienza diretta è considerata rappresentativa, sebbene la sensazione del singolo in un contesto specifico non possa rappresentare la sintesi della situazione generale. Dall’altro, i media contribuiscono alla falsa percezione attraverso le loro narrazioni distorte. Insomma, la questione immigrazione, oltre a essere sovrarappresentata, dando l’impressione che si tratti di un problema molto più grave di quanto non sia – perlopiù in termini di accoglienza e contaminazione reciproca –, è quasi esclusivamente narrata dal punto di vista dei Paesi d’arrivo. Si narrano gli sbarchi, i muri scavalcati e le presunte conseguenze per chi ospita, ma non si descrive mai realmente cosa accade dietro quei muri, oltre quegli orizzonti, nei luoghi da cui i disperati fuggono.
È probabilmente per questo che l’immigrazione è sempre trattata come un problema esclusivamente per gli Stati di approdo, lasciando che la percezione vinca sulla ragione. Complice la narrazione tipicamente populista del ci rubano il lavoro, l’arrivo dei migranti è spesso il capro espiatorio più facilmente individuabile di tutti i problemi che affliggono un Paese. Ma, più di ogni altra cosa, ciò che l’immigrato fa è spaventare. La paura del diverso sembra terrorizzare i sempre più nazionalisti Paesi occidentali, che rifiutano la possibilità di mescolarsi con l’altro, che si chiudono al contatto con il diverso.
Che sia alzando muri o chiudendo frontiere, in America o in Europa, il rifiuto dello straniero è la massima espressione di un mondo terrorizzato dal cambiamento. Lo stesso mondo che si appella a superate tradizioni per legittimare gli estremismi e che per proteggere la cultura giustifica l’intolleranza. Ma, se l’arrivo di qualche anima disperata in cerca di aiuto mette tanto in pericolo lo status quo, che senso ha tentare di preservare qualcosa di tanto fragile, anche a costo di rinunciare all’umanità?