La cultura sessista è tra gli argomenti protagonisti della nostra contemporaneità grazie a una presa di coscienza sempre maggiore della sua onnipresenza nel quotidiano. Consapevoli che certi retaggi non si scardinino dall’oggi al domani, soffermiamoci un secondo su uno dei primi approcci di un individuo alla realtà: lo sguardo. Nello specifico, il cosiddetto male gaze (sguardo maschile). Letteralmente, come riportato dal Cambridge Dictionary, è il mostrare o guardare eventi o le donne dal punto di vista di un uomo, attraverso l’utilizzo di mezzi di comunicazione quali cinema, televisione, pubblicità, video musicali, arte e letteratura.
A introdurre il concetto di male gaze è stata la regista e critica cinematografica Laura Mulvey, nel 1975, nel suo saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema. Mulvey notò come la maggior parte del cinema tradizionale fosse fatto in modo tale da compiacere il voyerismo maschile eterosessuale, rasentando una vera e propria scopofilia cioè il piacere sessuale implicato nel guardare. Una dicotomia, quindi, tra maschile attivo e femminile passivo. Sebbene tale teoria vada contestualizzata al suo tempo e riguardi il solo aspetto cinematografico, possiamo senza dubbio asserire che essa sia ancora profondamente attuale e varia.
Siamo ormai saturi di esempi in cui, in pubblicità, il corpo della donna viene costantemente oggettificato e sessualizzato, anche per promuovere prodotti che non hanno nulla a che fare con la sensualità. Così come di programmi in cui la donna viene inquadrata dal basso, insistendo su specifiche zone. L’importante è essere sexy perché la società ci ha insegnato ad aspirare a questo, relegando spesso la figura femminile allo stereotipo di femme fatale o di angelo del focolare.
Nel cinema esiste un preciso codice di male gaze che si divide in tre prospettive: lo sguardo di chi sta dietro la macchina da presa, quindi il regista; lo sguardo diegetico, cioè dei personaggi maschili all’interno della rappresentazione; lo sguardo extradiegetico, cioè dello spettatore che osserva la rappresentazione. È chiaro che la validità della teoria della Mulvey sta nel fatto che parliamo di un’industria fatta storicamente da uomini, il cui primo target di riferimento sono uomini (ribadiamolo, eterosessuali).
Questa visione sessista riflette lo squilibrio di potere tra i generi, dove è una cerchia ristretta a decidere cosa è bello, importante, degno, giusto. E, cosa ancora più vile, ha abituato la donna a convivere con e nello sguardo maschile. I personaggi femminili sono costantemente oggetto del desiderio sessuale – quanti slow motion di donne bellissime che avanzano sensuali abbiamo visto? –, spesso presentati come espediente per portare avanti la trama e la storia del protagonista.
Già nel 1946, ne Il postino suona sempre due volte, è possibile notare l’entrata in scena di Cora Smith, squadrata da capo a piedi ancor prima di conoscere chi sia. O, anche, Megan Fox in Transformers 3, dove la ragazza sta controllando il motore dell’auto ma le sue pose e l’inquadratura si avvicinano più a un’esibizione provocante che ad altro.
Per fare un esempio più attuale, The Hawkeye Initiative è un progetto che pone l’accento sui differenti trattamenti riservati ai personaggi maschili e femminili nei fumetti e nei film supereroistici. Come nell’illustrazione qui riproposta che capovolge le pose degli Avengers maschi nella stessa resa sessualizzata di Black Widow, unica eroina del film. Il risultato quasi grottesco, in realtà, fa riflettere non poco.
Sebbene i registi stiano tentando di caratterizzare i personaggi femminili con ruoli attivi e background più complessi, il male gaze è ancora duro da scardinare. Esempio eclatante, Bombshell, film del 2019 incentrato sullo scandalo Roger Ailes, capo di Fox News accusato di molestie sessuali. In una scena con Margot Robbie, il punto di vista della camera fa chiaramente identificare lo spettatore più con il predatore che con la vittima, indugiando in maniera inopportuna su alcune parti del corpo dell’attrice.
Per fortuna, molti film di oggi rigettano il male gaze o lo mettono alla berlina e qui ricordiamo la pellicola francese Je ne suis pas un homme facile (Non sono un uomo facile), del 2018. Il protagonista si risveglia in una realtà governata dagli stessi stereotipi del patriarcato, solo al contrario. Di conseguenza, quando accende la TV, è sconvolto nel notare la presenza asfissiante di uomini sensuali e seminudi, una scena che mostra perfettamente l’importanza del punto di vista. La soggettiva è fondamentale poiché crea coinvolgimento psicologico, porta lo spettatore a immedesimarsi e a creare empatia con il personaggio.
I tre sguardi del male gaze possono essere applicati anche alla letteratura, traducendoli con: sguardo dello scrittore, del personaggio, del lettore. Virginia Woolf, in Una stanza tutta per sé (1929) scriveva: Cercai di ricordare qualche caso incontrato nel corso delle mie letture, in cui due donne venissero rappresentate come amiche. Ogni tanto sono madre e figlia. Ma, quasi senza eccezioni, sono mostrate nei loro rapporti con gli uomini. Era strano pensare che tutte le grandi donne della letteratura erano state, fino all’epoca di Jane Austen, non solo viste dall’altro sesso, ma viste soltanto in relazione all’altro sesso.
Nelle rappresentazioni visive, l’arte è senza dubbio un altro mezzo che ha perpetrato a lungo il concetto di male gaze. Riprendendo il discorso su chi facesse l’arte e chi fosse il target (i committenti), è chiaro che abbiamo una storia infinita di manifestazioni di potere maschile contrapposto alla passività femminile. E il soggetto principale delle opere artistiche sono le donne, più precisamente i nudi. Il critico John Berger scrisse nel 1972 un saggio intitolato Questione di sguardi al fine di interpretare il linguaggio delle immagini per un maggiore approccio critico. La donna – scrisse Berger – deve guardarsi di continuo. Ella è quasi costantemente accompagnata dall’immagine che ha di se stessa. […] Gli uomini agiscono e le donne appaiono. Gli uomini guardano le donne. Le donne osservano se stesse essere guardate. Ciò determina non soltanto il grosso dei rapporti tra uomini e donne, ma anche il rapporto delle donne con se stesse. Tra i tanti dipinti, citiamo Susanna e i vecchioni (1550-1560) del Tintoretto.
Chi invece ha fatto del proprio corpo la sua opera d’arte, in chiave provocatoria, è stata Marina Abramović che, con la performance Rhythm 0, tenutasi nella galleria Studio Morra di Napoli nel 1974, ha voluto dimostrare fino a che punto il pubblico potesse spingersi avendo in pugno il suo corpo. L’esperimento prevedeva la possibilità di utilizzare, su di lei, gli oggetti più disparati (da un cappello a un coltello, a una pistola) nella sua totale accondiscendenza. Inutile dire che la performance si è dovuta interrompere dopo sei ore, per la piega sadica e rischiosa che stava prendendo.
Tornando al nostro discorso iniziale, dunque, se uno dei primi approcci di un individuo è lo sguardo, bisogna tener conto del rischio altissimo di alterare la sua percezione della realtà. Fondamentale è una corretta alfabetizzazione visiva, comprendendo che più il femminile continuerà a essere svilito e stereotipato nei media, più sarà dura annientare tali cliché nel quotidiano.