Da tempo, alla Cina piace tanto far parlare di sé, soprattutto se si tratta di violazioni dei diritti umani o di decisioni particolarmente repressive. Il Paese asiatico non è certamente rinomato per il suo riguardo per le libertà, il riverente rispetto dei diritti dell’uomo o l’interesse per uno stile di vita vagamente democratico. Diventa però impossibile continuare a tollerarne l’operato nel momento in cui una repubblica popolare inizia ad assumere le sembianze di un regime.
Le ultime notizie dalla Cina riguardano la nuova legge elettorale di Hong Kong. La città, protagonista di violenti e repressivi scontri che sembravano destinati a durare a lungo se l’avvento della pandemia non ne avesse domato le fiamme, è preda del repressivo governo cinese da molto tempo. Ma con le modifiche previste per il sistema elettorale, è probabile che si porrà definitivamente fine alla sua autonomia.
La riforma prevede di consentire a Pechino di porre veti sui candidati al parlamento di Hong Kong, in modo da poter dichiarare non idonee alla posizione tutte le persone che si dimostrano contrarie al partito comunista. Con questo provvedimento si istituisce un comitato con il compito di valutare i deputati e giudicarli effettivamente degni di far parte dei legislatori. La votazione ha visto 2878 voti a favore, un astenuto e nessun voto contrario: una decisione essenzialmente unanime, dunque, da parte di un governo molto poco tollerante.
Le prime reazioni sono giunte, ovviamente, dalla Gran Bretagna, che ha accusato Pechino di erodere le libertà promesse a Hong Kong e di aver disatteso l’impegno vincolante degli accordi, che garantivano la tutela dei sistemi economici e democratici e il rispetto dei diritti umani. Anche Stati Uniti, Canada e Unione Europea hanno comunicato la loro condanna e hanno avvisato che la decisione avrà delle conseguenze. C’è da chiedersi, però, quanto saranno effettivamente utili i provvedimenti promessi. Le azioni della Cina non sono certamente una novità, non c’è nulla di nuovo nel suo operato. Eppure da anni i Paesi democratici decidono di stringere accordi con uno Stato che non ha mai mostrato alcuna intenzione di cambiare le cose. E che, a quanto pare, punta a fare sempre peggio.
Per legittimare la riforma, il governo cinese ha sottolineato la necessità di garantire che ogni membro si dimostri realmente un patriota: in altre parole, è necessario che l’esecutivo sia composto esclusivamente da fedelissimi al partito. È certamente chiaro quanto un sistema elettorale basato sulla libertà della popolazione a votare solo un certo tipo di candidati non sia esattamente baluardo della democrazia. Ma lo scopo di Pechino va probabilmente molto più a fondo.
Certo, l’eliminazione dell’opposizione e dei personaggi scomodi è una delle forme di esercizio del potere preferite dei regimi dispotici, eppure ciò che sta accadendo a Hong Kong e in tutta la Cina va oltre il controllo e riguarda l’omologazione. Il conformismo richiesto nel governo è ugualmente ricercato anche nella popolazione. Dopotutto, anche ciò che stanno vivendo gli Uiguri ha lo stesso intento. Pechino, infatti, sta tentando di disperdere la minoranza musulmana tra il resto della popolazione in modo che, se sapientemente diluita, essa possa dimenticare la propria identità culturale e adeguarsi ai criteri necessari per vivere nel Paese.
In fondo, ciò che si ricerca è sempre lo stesso: abbandonare un credo religioso per credere solo nel partito non è diverso da abbandonare un’ideologia politica. Una necessità di conformismo, quella della Cina, che non può non richiamare gli eventi del secolo scorso, che non può che far pensare a un governo che ha bisogno di cittadini ligi e obbedienti che silenziosamente servono il potere. Ebbene, questa tendenza non rappresenta certo una sconvolgente novità per gli osservatori del resto del mondo. E proprio recentemente ci chiedevamo come l’Unione Europea potesse restare a guardare mentre un governo autoritario sterminava un’intera etnia.
Riguardo la Cina si iniziava a parlare di conformismo già negli anni Cinquanta, quando il cosiddetto lavaggio del cervello fu teorizzato da Edward Hunter nell’opera che analizzava il brainwashing nella Red China. Quella che il Paese metteva in atto era un’azione di riforma del pensiero che serviva a rimodellare le ideologie dei dissidenti politici in modo da inglobarli e assimilarli, invece che eliminarli.
A sentirne parlare, l’idea che qualcuno possa agire sui pensieri sembra estremamente invasiva, forse addirittura peggiore dell’idea che qualcuno possa controllarne la carne. D’altronde, il corpo è una fragile armatura esposta ai mali del mondo, ma la mente è sempre stata considerata impenetrabile. È per questo che l’idea di controllare il pensiero, di piegarlo al volere di un potere autoritario, rappresenta una violazione quasi inconcepibile. Quello che accadeva – e accade? – in Cina non sembra troppo distante da ciò che accadeva a Winston Smith con il lavaggio del cervello perpetrato in nome del Grande Fratello. Ma dagli anni Cinquanta, o dai racconti di Orwell, non sembra che sia cambiato molto. E non sembra neanche che ci sia la volontà di impedire il perpetuo durare delle condizioni in cui la Cina lascia vivere i propri cittadini.
Ma come possono tali manovre atte alla privazione della libertà tutta, da quella personale a quella di voto, da quella dei corpi a quella delle menti, non rappresentare l’operato di un manifesto e irrefrenabile totalitarismo?