L’8 marzo il presidente di Confindustria, la più importante organizzazione degli industriali italiani, rilascia un’intervista a Il Messaggero. Centrale è la richiesta, posta con più forza che nelle scorse settimane, della fine al blocco dei licenziamenti perché si sta trasformando anche in un blocco delle assunzioni.
Carlo Bonomi non si limita, però, a intervenire sul tema caldo del momento e procede a tutto tondo. In particolare, auspica la revisione dei contratti di espansione, nuovi incentivi per l’assunzione di giovani e donne, la creazione di un ammortizzatore universale e, soprattutto, la modifica dei contratti a tempo determinato, rivedendo il meccanismo delle causali che non ha funzionato, per dare flessibilità. Chiediamo misure per assumere, non per licenziare.
Il giorno successivo su quasi tutti i quotidiani ci sono interviste e articoli che riprendono quest’ultimo punto. Il Riformista ospita Pietro Ichino, La Repubblica un testo scritto a più mani da Bentivogli, lo stesso Ichino e Valente, Il Sole 24 Ore riporta virgolettati del sottosegretario Durigon. Tutti fanno proposte sulla modifica dei contratti a tempo determinato che, come riportava il giornale di Confindustria, hanno fatto registrare un indietro tutta. Nel 2020 ce ne sono stati 1.4 milioni in meno rispetto al 2019, per un totale di meno 392mila lavoratori. E, per di più, il 33% di quei contratti attivati ha una durata inferiore ai trenta giorni. Potranno anche chiamarla flessibilità, ma solo perché viviamo in un tempo in cui le parole hanno perso gran parte del loro significato. Altrimenti il termine giusto sarebbe precarietà, senza tema di smentita.
La prima riflessione è su questa singolare coincidenza di così tanti osservatori sul tema dei contratti a tempo determinato, proprio all’indomani delle parole di Bonomi. Evidentemente, Confindustria detta l’agenda e giuslavoristi ed esperti seguono a ruota.
C’è, ovviamente, anche una questione contingente. Il 31 marzo è al momento prevista la fine delle deroghe introdotte nel 2020 al Decreto Dignità. Per i contratti a tempo determinato significa che dal Dl Cura Italia (marzo 2020) in poi gli imprenditori possono evitare di offrire giustificazioni per proroghe e rinnovi, non devono rispettare le pause di dieci o venti giorni tra un contratto e il successivo e il tetto delle quattro proroghe massime. Stesso regime vale anche per i contratti in somministrazione, quelli relativi alle celebri agenzie interinali.
Un ritorno al Dl Dignità non s’ha da fare, su questo Bonomi e Confindustria sono stati chiari. Il Governo pare non abbia alcuna voglia di contraddirli. Il sottosegretario Durigon (Lega) ha fatto trapelare che sono diverse le ipotesi sul tavolo. Ma che si parli di abrogazione delle causali, proroga o congelamento della deroga introdotta dal Cura Italia, poco cambia. La sostanza è che i desiderata di Confindustria saranno recepiti, in formula piena o parziale.
In fondo, non c’è da stupirsi, visto che Durigon pare condividere i principi di fondo dell’associazione imprenditoriale di Viale dell’Astronomia: è importante spingere sulla flessibilità sia in entrata che in uscita. Mettete queste parole a confronto con quelle di Bonomi a Il Messaggero e troverete una sovrapposizione concettuale completa.
La seconda riflessione – lo ammetto – mi provoca un certo imbarazzo. Tra le voci ospitate dai quotidiani non se ne trova una che si discosti dall’idea di Confindustria. Ichino, Bentivogli, Valente, sono concordi: la drastica limitazione della possibilità di assunzione a termine e in somministrazione ha penalizzato i livelli di occupazione. Ichino, poi, si supera. Tornando sul tema dello sblocco dei licenziamenti, sostiene che anche in questa fase di crisi economica gravissima si registrano centinaia di migliaia di assunzioni regolari ogni mese: non si fa il bene di chi ha perso il posto per la pandemia tenendolo lontano da questo flusso continuo di opportunità di lavoro.
A me sembrava che il blocco dei licenziamenti fosse strumento di protezione per tantissimi lavoratori, ma evidentemente mi sbagliavo, perché stiamo negando loro un flusso continuo di opportunità. Sarà che il mondo incantato di Ichino non è lo stesso in cui metto piede io ogni giorno, ma qualcosa a me non torna. Disoccupazione giovanile oltre il 30%, centinaia di migliaia di posti di lavoro persi solo nel 2020, un’occupazione femminile che al Sud non supera il 30% e che è a livelli pre-2008 (prima cioè dell’altra grande crisi), emigranti giovani e vecchi sempre più numerosi. Ma – ripeto – sarà che viviamo in due mondi diversi…
Una terza riflessione mi sovviene e accresce il mio imbarazzo. C’è una cosa che Durigon, Ichino e Bentivogli hanno in comune. Hanno tutti e tre trascorsi da sindacalisti, rispettivamente nella UGL, nella FIOM e nella CISL. Oggi sono tutti e tre d’accordo con Confindustria, cioè con la controparte sindacale. Viene da chiedersi se siano stati folgorati prima o dopo l’uscita dalle associazioni di categoria. Domanda non peregrina se pensiamo al crollo verticale di iscrizioni ai sindacati concertativi e la profonda crisi di rappresentanza sui posti di lavoro.
Ripenso agli strali di tanti lavoratori e di tante lavoratrici contro i sindacati. Venduti è l’accusa più frequente che ho ascoltato in questi anni. Ma quando i lavoratori la urlano non sempre intendono l’atto concreto della compravendita, una corruzione in cambio di denaro, premi, regali; più spesso intendono la svendita degli interessi di quella fetta della nostra società da parte di chi doveva esserne alla testa. E che si scopre condividere visione, valori, prospettive di coloro che sul posto di lavoro sono sul fronte opposto: gli imprenditori. Buon per loro, mi viene da dire. Ma il problema rimane: chi rappresenta oggi i lavoratori e le lavoratrici del nostro Paese se partiti parlamentari e sindacati concertativi si sono schierati tutti dall’altro lato della barricata?