“E ora, vecchio mio, sono davvero piuttosto all’oscuro di ciò che farò, ma dobbiamo provarci e tener in vita la speranza e il coraggio.”
Sono queste le parole di Vincent Van Gogh, tratte da una lettera a Theo del 1876, che accolgono i visitatori del Museo di Capodimonte. Sono poste in alto, in una stanza che ospita unicamente Paesaggio marino a Scheveningen (1882) e Una congregazione che esce dalla Chiesa Riformata di Nuenen (1884/85), i due quadri del pittore olandese ritrovati in un covo della camorra lo scorso settembre.
Molto è stato già detto su questa mostra, come era giusto che fosse, ma un elemento in particolare merita una riflessione ulteriore. Le due tele, appartenenti a un primo periodo artistico dell’autore, sono state ritrovate avvolte in un panno, nella cucina di una casa a Castellammare di Stabia. Erano in un luogo privato, esposte al logoramento e dimenticate in un angolo. Di certo, quella non sarebbe stata l’ubicazione definitiva delle opere, visto il loro valore di mercato, ma si è dimostrata senza dubbio la loro ubicazione sociale. Il ratto del 2002 aveva di fatto compromesso la fruibilità di questi quadri, relegandoli a una dimensione privata e determinando per la collettività l’impossibilità materiale di accedere alla visione o allo studio degli stessi. Adesso, invece, l’arte di Van Gogh ha potuto liberarsi dagli anfratti angusti in cui era stata rinchiusa e tornare nel luogo in cui realmente desiderava restare, ossia in uno spazio pubblico, presso il quale tutti potessero ammirarla. È ritornata a essere – e ci perdonerete il gioco di parole – cosa nostra.
Sebbene non ci sia dato sapere, infatti, come la camorra sia venuta in possesso delle due tele, possiamo attualmente affermare con certezza quale valore abbia per noi questo salvataggio. L’atto di coraggio e di speranza che Van Gogh stesso ha cercato di preservare, nonostante le avversità e le incertezze della vita, è lo stesso che ci permette di riappropriarci di ciò che ci spetta, togliendolo dalle mani delle organizzazioni criminali, le quali notoriamente non cercano il benessere della collettività, ma soltanto quello dei propri interessi economici. Nessuno di noi ha faticato nel provare gioia e sollievo, sapendo che parte del nostro patrimonio artistico stesse tornando a casa, perché – anche se ancora lontana dall’essere una vera e propria vittoria – questa riconquista ha aperto una breccia nel sentire comune, trasformando una lotta quotidiana in un evento straordinario.
Oliver Sacks sosteneva che la speranza fosse un atteggiamento di accettazione dell’ignoto, del “non ancora”, e che potesse trasformare l’incertezza in un valore. Allo stesso modo, nonostante il futuro ci appaia incerto, precario e sempre più vittima della sopraffazione e della violenza, sarà proprio questa nostra visione insatura della realtà a permetterci di lottare ancora, con coraggio e nella speranza di poter costruire un mondo migliore.
Dobbiamo provarci.