Quando Cleonice aprì gli occhi tutto lasciava presagire l’ennesima mattinata uguale alle altre. Alzati, sistema la stanza, mettiti in ordine. Prepara le colazioni, sveglia i bambini, leggi la lista redatta dalla signora, assicurati che il signore abbia tutto per la giornata di lavoro. E così via, in una miriade di piccoli e grandi compiti quotidiani, quelli di ogni santo giorno.
Solo che Cleonice, quell’8 marzo 2020, non aveva fatto i conti con quella formula tanto astrusa e che oggi suona così sinistramente familiare: DPCM. Quattro lettere che la signora tradusse così: c’è il virus, non possiamo rischiare un contagio. Non puoi uscire, ché poi magari ce lo porti in casa e – sai – con Adele e Fabio così piccoli non possiamo rischiare.
Era per il bene dei piccoli. Era per il bene di Cleonice stessa. Voleva forse correre il rischio di ammalarsi, lei invisibile alle istituzioni, lei che non aveva uno straccio di carta a dimostrarne l’esistenza? Ed era evidente che quelle telecamere di cui la casa era ormai piena servivano a garantire che quel “bene” di cui le aveva parlato la signora fosse a prova di fuga, a prova di qualsiasi pulsione alla disobbedienza.
Erano le settimane del Presidente del Consiglio in TV ogni weekend. L’attesa spasmodica per tutte e tutti in Cleonice era qualcosa di più. La speranza di poter essere liberata, però, lasciava pian piano il passo all’angoscia ogni volta che un nuovo DPCM veniva commentato dalla signora sempre allo stesso modo: Cleonice, un altro po’ di pazienza. Adele e Fabio sono troppo fragili, capisci? È per il bene di tutti.
Fu per il bene di tutti che Cleonice non poté mettere piedi fuori dalla porta di quell’appartamento lussuoso, uno di quelli arredati con gusto – e con soldi, dai figli della Napoli bene, da quelli né volgari né ignoranti, da quelli col pezzo di carta incorniciato, che parlano inglese fluente e che sono sempre col trolley pronto.
Fu per il bene di tutti che continuò a pulire, rassettare, preparare colazioni, pranzi e cene.
Sessanta giorni. Millequattrocentoquaranta ore. Ottantaseimilaquattrocento minuti. Questo il conto del tempo in cui Cleonice, per il bene di tutti, è stata rinchiusa nell’appartamento. A fare quello che faceva da anni: lavoratrice domestica, in nero.
Doveva essersi fatta prendere anche lei dall’ottimismo che a inizio maggio iniziava a serpeggiare. Altrimenti non si spiega come abbia osato andare dalla signora per chiederle un pezzo di carta che le permettesse di dire io esisto, io lavoro qui, sono un essere umano con doveri, ma anche con dei diritti. La pandemia, però, doveva aver segnato tremendamente la signora. Fu trafitta come le avessero conficcato una pallottola in qualche organo vitale. Le mancò quasi il respiro. Perché altrimenti non si spiega come mai non uscì alcuna risposta dalle sue labbra.
Al mattino seguente, però, il signore parlò con calma a Cleonice. Le parlò di fiducia che era irrimediabilmente venuta a mancare, per cui bisognava prendesse le sue cose e cercasse un futuro altrove. Lì, in quella casa che era stata anche un po’ gabbia, per lei non c’era più posto.
Questo è uno dei racconti dalla pandemia. Una storia vera di una lavoratrice domestica in carne e ossa, “sequestrata” per due mesi dai suoi datori di lavoro allo scoppio dell’emergenza sanitaria. Coartata nella sua libertà, nella sua volontà, nei suoi affetti.
Solo che Cleonice non si chiama Cleonice. Ho scelto questo nome perché è quello che portava una donna di 63 anni, anch’ella lavoratrice domestica, ma dall’altra parte dell’Atlantico, nella megalopoli di Rio De Janeiro. A fine marzo 2020 fu la prima vittima di coronavirus a Rio. Lei, collaboratrice familiare, era stata infettata dalla padrona italiana che, di ritorno da un viaggio di piacere nel Belpaese, pur presentando sintomi da COVID-19, aveva preferito non dire nulla alla sua servitù e continuare come nulla fosse.
Cleonice ha pagato con la morte, mentre il nome della sua padrona non si è fatto largo nemmeno sui giornali. Evidentemente c’era da difendere le virtù della signora italiana, più preziose della vita di un’umile serva.