Il cognome paterno non è da considerare come un retaggio patriarcale ma come il regalo più prezioso che un padre possa fare ai figli. La madre dona il corpo, il padre consegna l’appartenenza a una storia, a una comunità, a una famiglia. Queste parole del senatore Simone Pillon si direbbero uscite dal Medioevo e, invece, sono state pronunciate appena un mese fa in occasione dell’ennesima sollecitazione della Corte Costituzionale rivolta al legislatore italiano per modificare la disciplina riguardante l’attribuzione del cognome paterno in un’ottica realmente rispettosa dell’uguaglianza e delle pari dignità appartenenti ai due genitori. Esse ci consentono, però, di riflettere su quanto la nostra cultura e il nostro ordinamento siano ancorati a tradizioni che riflettono una struttura familiare ancora patriarcale, in cui la donna non è altro che una generatrice di prole.
La Corte Costituzionale, con l’ordinanza n° 18 del 2021, ha sollevato questione di legittimità dell’articolo 262 del Codice Civile, nella parte in cui impone l’automatica acquisizione del cognome paterno alla nascita. Il Tribunale di Bolzano si era infatti trovato a decidere del ricorso proposto dal pubblico ministero per la rettificazione di un atto di nascita di una bambina per il quale i genitori, di comune accordo, avevano stabilito di attribuire il solo cognome materno. Tuttavia, tale possibilità è attualmente preclusa dalla normativa in vigore, nonostante il precedente della Corte Costituzionale (n° 286 del 2016), che però riconosceva la sola possibilità di aggiungere il cognome materno, ma non di renderlo esclusivo.
Già allora, però, la Consulta, pronunciandosi, aveva precisato che era ormai indifferibile un intervento legislativo per disciplinare organicamente la materia secondo criteri consoni al principio di parità. La normativa in vigore, infatti, violerebbe l’articolo 2 della Costituzione, che tutela l’identità personale – essendo il diritto al nome espressione dell’appartenenza di un singolo a un gruppo familiare –, degli articoli 3 e 29 della Costituzione, sotto il profilo dell’uguaglianza e pari dignità dei genitori nei confronti dei figli, oltre che dell’articolo 117 della Costituzione, in relazione alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte EDU ha in più occasioni affermato che l’impossibilità di attribuire al figlio il solo cognome materno integra violazione del divieto di discriminazione e del diritto al rispetto della vita privata e familiare, da cui si desume una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane.
Si tratta oltretutto di un argomento e di un invito che la Corte Costituzionale aveva fatto in più occasioni nei confronti del legislatore, ma che non ha mai trovato risposta. Basti pensare che una flebile affermazione in tal senso si era registrata già nel 1988, quando la Consulta aveva riconosciuto che sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale concilii i due principi sanciti dall’articolo 29 della Cost., anziché avvalersi dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro.
Diciotto anni dopo, nel 2006, con maggiore vigore, il Giudice delle leggi definiva tale sistema di attribuzione del cognome un retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna. Da allora, nulla è cambiato e tale normativa non è stata scalfita neppure in occasione delle modifiche introdotte per sancire la completa equiparazione tra figli legittimi, adottati e naturali.
Le cause sono da ricercare nella mancanza di una volontà politica in tal senso – come ci dimostrano le parole di Pillon – e da un Parlamento che non è intenzionato in alcun modo a fare passi in avanti verso la civiltà. L’affermazione del senatore leghista, e di tutti coloro che difendono strenuamente quella che considerano la famiglia tradizionale, potrebbe sembrare una semplice considerazione romantica e tradizionalista, ancorata a sistemi di pensiero oramai obsoleti. In realtà essa, oltre a farci rabbrividire, ci dice molto di più riguardo al modo in cui tuttora vengono considerate le donne, le cui doti fondamentali – lo apprendiamo ogni giorno dai giornalisti nostrani – sono quelle di madre e moglie. Eppure una donna non è il suo utero, né il suo scopo nel mondo è quello di essere madre. Essere madri è innanzitutto una scelta, uno degli infiniti modi in cui una donna può essere felice. Una donna – a differenza di quanto crede Pillon – non dona ai propri figli il solo corpo, ma può, come il padre, attribuire una storia, un’appartenenza alla famiglia, un’educazione che prescindono da chi ha messo materialmente al mondo la prole. Considerare le donne alla stregua di “sforna-bambini” le mortifica e, anziché garantirla, dissolve quell’unità familiare che può basarsi solo ed esclusivamente sull’uguaglianza.
Purtroppo, quella potestà maritale che la Consulta definisce tramontata occupa ancora un peso rilevante nella nostra società, e prova ne sono gli allarmanti numeri riguardanti le violenze domestiche e i femminicidi per mano dei propri partner, che si sentono ancora padroni delle loro mogli e compagne. Per quanto l’attribuzione del cognome materno possa sembrare una questione di poco conto rispetto a diritti ben più rilevanti che vengono quotidianamente negati alle donne, la modifica della sua disciplina sarebbe un piccola, ma consistente goccia nella lotta contro il patriarcato, l’affermazione anche formale di quell’uguaglianza troppo spesso decantata ma teorica.