Si è conclusa ieri, 28 febbraio, la 78° edizione dei Golden Globe Awards, un’edizione che senz’altro resterà nella storia. Già slittata di un mese, ha visto i candidati e le conduttrici Tina Fey e Amy Poehler interagire da remoto. La cerimonia – fondamentale quale anticamera degli Oscar che si terranno il 25 aprile – ha riservato non poche sorprese, dalla regia alle serie tv, alle colonne sonore e canzoni, dove si è affermata l’Italia con Laura Pausini.
Come miglior film drammatico trionfa senza troppo stupore Nomadland – già vincitore del Leone d’Oro a Venezia e acclamato da pubblico e critica – sbaragliando pellicole non da poco come Mank, The Father, Il processo ai Chicago 7 e Una donna promettente. La storia ha come protagonista Frances McDormand, la quale decide di lasciare la sua vita per intraprenderne una da nomade, attraversando gli Stati Uniti occidentali sul suo furgone. E non solo: la regista, produttrice e sceneggiatrice Chloé Zhao – nella rosa con Regina King – si è aggiudicata il premio per la miglior regia, riconoscimento di spessore anche da un punto di vista storico-culturale, trattandosi della prima donna a vincere nella categoria dal 1984.
Borat – Seguito di film cinema è invece il miglior film commedia/musicale, pellicola irriverente e politica, girata volutamente a ridosso delle elezioni. L’attore Sacha Baron Cohen ha ringraziato sua moglie, l’unica in grado di tenere a bada la sua follia.
Ha suscitato grande emozione il premio postumo come miglior attore in un film drammatico a Chadwick Boseman, per Ma Rainey’s Black Bottom, scomparso a causa di un tumore lo scorso agosto, mentre tra le attrici ha prevalso Andra Day per The United States vs. Billie Holiday. Peccato per Vanessa Kirby, da molti favorita per la sua interpretazione da brivido in Pieces of a Woman, film indegnamente assente nelle candidature e che speriamo di trovare agli Oscar.
Nessuna sorpresa per Sacha Baron Cohen come migliore attore protagonista in un film commedia/musicale, che avrebbe potuto tranquillamente vincere anche il premio come miglior attore non protagonista – invece ottenuto da un sempre più in forma Daniel Kaluuya contro nomi del calibro di Jared Leto, Bill Murray e Leslie Odom Jr. – poiché ha dato prova delle sue doti attoriali sia in ruoli comici come suo solito, sia in ruoli più seri e drammatici, come ne Il processo ai Chicago 7. Rosamund Pike è, di contro, la miglior attrice.
Nella rosa delle migliori attrici non protagoniste sfilavano nomi importanti quali Glenn Close – bravissima in Elegia americana –, Olivia Colman per The Father – abbiamo ormai esaurito le parole su di lei –, Amanda Seyfried per Mank, Helena Zengel per Notizie dal mondo e Jodie Foster per The Mauritanian: vince quest’ultima, condividendo l’emozione assieme a sua moglie Alexandra Hedison e al loro cane, sul divano di casa.
Il Golden Globe per il miglior film in lingua straniera va a Minari, regia di Lee Isaac Chung, già vincitore del Gran premio della giuria al Sundance Film Festival 2020. Ci spiace per La vita davanti a sé di Edoardo Ponti, con protagonista Sophia Loren, ma l’Italia ha comunque la sua soddisfazione con la vittoria per la miglior canzone originale a Io sì (Seen) di Diane Warren, Laura Pausini e Niccolò Agliardi, per lo stesso film.
Non ci sorprende neppure la vittoria di Soul, nella categoria Miglior film d’animazione, il commovente ultimo gioiellino di Disney e Pixar, vincitore altresì della miglior colonna sonora originale. C’era da aspettarselo, con le straordinarie musiche jazz e strumentali di Trent Reznor, Atticus Ross e Jon Batiste, che hanno contribuito a rendere la pellicola un capolavoro.
Meritatissima la miglior sceneggiatura per Aaron Sorkin con Il processo ai Chicago 7. Il film, tratto da una storia vera, riprende le assurde vicissitudini del processo ai cosiddetti Sette di Chicago, attivisti che, nel 1968, furono accusati di aver macchinato i celebri scontri tra manifestanti e polizia.
Giungiamo ai Golden televisivi e la miglior serie è The Crown, che continua a vincere tutto ciò che è vincibile. Occasione perduta per Lovecraft Country – La terra dei demoni, The Mandalorian, Ozark e Ratched, mentre è ignobile l’assenza di Better Call Saul.
I giovani Josh O’Connor ed Emma Corrin, sempre per The Crown, sono il miglior attore e la miglior attrice in una serie drammatica, annientando nientemeno che Al Pacino, Bob Odenkirk, Laura Linney e Olivia Colman.
Nonostante il favoreggiamento per Emily in Paris, a vincere il premio Miglior serie commedia/musicale è Schitt’s Creeck, con Catherine O’Hara come miglior attrice. Ted Lasso, invece, si aggiudica il miglior attore a Jason Sudeikis.
Nelle miniserie c’era davvero l’imbarazzo della scelta: Normal People, La regina degli scacchi, Small Axe, The Undoing – Le verità non dette e Unorthodox. Sebbene The Undoing e Unortodox abbiano ricevuto grande plauso, non poteva che primeggiare La regina degli scacchi, il fenomeno di ottobre 2020, con primato di serie Netflix con sceneggiatura non originale più vista di sempre. E, chiaramente, la miglior attrice è Anya Taylor-Joy, interprete della scacchista prodigio Beth Harmon, protagonista della storia. La sua emozionante espressione di sorpresa, durante la premiazione, ha sostituito il suo tipico sguardo magnetico che ha conquistato il pubblico, contrassegnandola come una delle attrici più peculiari del suo tempo.
Mark Ruffalo, per Un volto, due destini – I Know This Much Is True, è il miglior attore in una miniserie, ma vogliamo menzionare onorevolmente Bryan Cranston (Your Honor), troppo bistrattato per la sua bravura, e Hugh Grant (The Undoing) che ha sorpreso tutti, rifuggendo dal ruolo di commedia in cui era da sempre relegato.
Tra i migliori attori non protagonisti in una serie, miniserie o film televisivo trionfano John Boyega (Small Axe) e Gillian Anderson (The Crown).
Il Golden Globe alla carriera se l’è aggiudicato la straordinaria Jane Fonda, che ha scelto un ottimo discorso sull’importanza della democrazia, mentre a Norman Lear è andato il Premio alla carriera televisiva e quello Ambassadon a Jackson e Satchel Lee.
Premiazioni tutte nel complesso soddisfacenti, sebbene non possiamo fare a meno di sentirci delusi per l’assenza di grandi opere come Da 5 Bloods, Sto pensando di finirla qui o Pieces of a woman. Tra red carpet virtuali, videocall e mancanza di pubblico, questa edizione dei Golden Globe non verrà dimenticata facilmente. Tuttavia, accanto alle difficoltà e alla malinconia che il COVID-19 ha inevitabilmente portato, vogliamo comunque trovare aspetti che un sorriso ce lo hanno strappato: la capacità di sentirsi vicini pur essendo fisicamente distanti, la caparbietà di andare avanti nonostante tutto e la dolce intimità in cui abbiamo colto ogni star, nei propri soggiorni, assieme ai propri cari, mostrando i volti (e gli abiti: guardare Jason Sudeikis in felpa) da persone comuni che, a volte, sembra dimentichiamo che abbiano.