Pare che i primi a parlare di femminismo siano stati due uomini, filosofi francesi: Pierre Leroux e Charles Fourier. Entrambi socialisti, entrambi vissuti a cavallo tra Settecento e Ottocento, quando, insieme alle idee illuministe, inizia a diffondersi un movimento a favore dei diritti delle donne.
Dal XVIII secolo al XXI, di strada se n’è fatta: in Italia, nel 1945 le donne ottengono il diritto al voto, nel ’63 hanno accesso alle professioni pubbliche, nel ’78 possono abortire legalmente, e a inizio 2020… raggiungono un tasso di attività lavorativa del 18.9% in meno rispetto agli uomini, con una differenza in busta paga del 23.7%. A danno delle donne, ovviamente.
Dicevamo? Ah, sì: dal XVIII secolo al XXI di strada se n’è fatta, ma non abbastanza. Per questo motivo, dal 2011, la Legge Golfo-Mosca ha introdotto le ormai note quote rosa. Lo scopo: tutelare la parità di genere nell’accesso a sedi decisionali, equiparando la presenza maschile e femminile, che non deve essere inferiore al 30% per il genere meno rappresentato. Una grande vittoria in nome dell’equità: così sembrava. Eppure, qualcuno ha iniziato a nutrire qualche dubbio quando si è accorto che imporre dei ruoli basandosi sul genere, e non sul curriculum, rischiava di essere poco meritocratico. Senza, peraltro, risolvere del tutto il problema.
Le controversie relative all’efficacia delle quote minoritarie sono riconducibili a una causa comune: il paradosso della discriminazione positiva. Essa riguarda ogni ambito in cui si realizza una disparità di trattamento di gruppi più fortunati in favore di categorie svantaggiate, come nel caso delle quote rosa, che sfavorirebbero profili validi solo perché di sesso maschile. Una discriminazione al contrario, quindi, ma “positiva” perché finalizzata a proteggere secolari vittime di penalizzazioni. E questo, certo, non riguarda solo le donne.
Per difendere etnie e gruppi sociali dall’emarginazione, anche l’Academy ha deciso di fare la propria parte. E lo scorso settembre, è stata introdotta una nuova policy nell’assegnazione dell’Oscar. Dal 2024, le pellicole che vorranno vincere la statuetta dovranno soddisfare il criterio di inclusività. I film candidati dovranno rappresentare almeno uno tra i temi relativi a orientamento sessuale, diversità di genere, disabilità e differenza etnica, non importa che sia nella trama, nel cast o tra le persone che hanno collaborato alla sua realizzazione.
Se da un lato le politiche per l’inclusione spostano i riflettori su disagi e ingiustizie perpetrate nella – e dalla – nostra società, la critica più frequente riguarda la competizione impari. Quando si destinano dei posti a precise categorie, come nel caso delle quote rosa, non si concorre più per merito, ma per genere. Insomma, si sacrifica la meritocrazia per salvare la parità dei diritti. Ma puntare all’uguaglianza usando come strumento altre forme di discriminazione è una contraddizione in termini. E se questa contraddizione non porta nemmeno a eliminare le disuguaglianze, non si può più parlare di male necessario. Le quote, infatti, non si limitano a sostituire un problema con un altro, ma addirittura ne aggiungono: un po’ come darsi una martellata sul dito per farsi passare il mal di denti.
In un’intervista al settimanale Prisma, Albachiara Re, giornalista ed ex sostenitrice delle quote rosa, mette in luce tale insensatezza: «All’inizio avremo un’illusoria percezione che il problema è stato affrontato nel migliore dei modi; ma non è così, perché alle quote, spesso, non viene accompagnato un cambiamento più radicale, a livello della società. Credo che una società strutturalmente inclusiva debba agire a livello culturale, dal basso».
La giornalista trova argomentazioni a favore della sua tesi proprio nei nuovi criteri di assegnazione del Premio Oscar: «È lecito chiedersi se una misura del genere possa avere una qualsiasi utilità. La mia risposta è perentoria: assolutamente no; perché in un’industria che sin dalla sua nascita ha perpetrato razzismo e discriminazione, certi ruoli sono strutturalmente preclusi ad alcune categorie. Abbiamo pochissime donne che fanno le registe, ancora meno che lavorano come tecnici del suono, ma ce ne sono tantissime che fanno le truccatrici, le scenografe o le costumiste».
La discriminazione, in ogni sua forma, segna la società in modo trasversale, con una capillarità a cui spesso non si pensa. Nel caso del cinema, ad esempio, la disparità di genere si traduce in scelte quasi obbligate che condizionano il percorso di un’intera vita: «Le donne convogliano il loro talento in ambiti in cui sanno di poter emergere. Dobbiamo agire prima che una donna scelga il proprio percorso».
E proprio sulla tutela delle donne, il sistema delle quote mostra tutta la sua ipocrisia. Quante, durante i colloqui, si sono trovate a rispondere a domande come: «Sei fidanzata? Hai figli? Quando pensi di metter su famiglia?». Perché le aziende devono rispettare le politiche dell’equità, ma solo a certe condizioni: donne, sì, ma non madri, non mogli, nemmeno nei progetti.
Le cose non vanno molto meglio su altri fronti. Chi si occupa di selezionare i CV è spesso obbligato a guardare il racial background ancor prima delle competenze, trovandosi a scartare molti giovani capaci per rispettare il politically correct. Un male necessario, dal punto di vista di chi per secoli non ha avuto tutele. Ma quanto è affidabile questo sistema delle quote?
Poniamo un annuncio di lavoro in un paese occidentale, europeo, in cui hanno priorità le minoranze. Queste non riguardano solo il genere, ma anche la cittadinanza e, spesso, la religione e l’orientamento sessuale. Sui primi c’è poco da barare. Ma come si valuta la veridicità delle dichiarazioni personali rilasciate dai candidati che rispondono ai questionari di preselezione? E come valutare un giovane nato nel “gruppo dei fortunati” che, alla disperata ricerca di lavoro, decide di mentire per avere più chance di ricevere il posto?
È innegabile: discriminazione, razzismo, omofobia, sono tumori sociali che hanno lasciato troppe metastasi. Ogni tentativo di distruggerli viene vanificato da nuove esplosioni di violenza, più o meno grandi, tutte con un comune denominatore: la dicotomia noi-loro. È la colpa che si cela dietro un fatale fraintendimento: confondere il diverso con l’alienus, l’assolutamente altro, sconosciuto e quindi nemico da sconfiggere.
È allora importante riflettere sulle considerazioni della Re che, come molte altre donne, come molti altri esponenti di categorie discriminate, lotta con forza per l’equità, ma non attraverso altra discriminazione, nemmeno quando spacciata per “positiva”. Perché l’uguaglianza non trionfa grazie alle quote, ma in una società che delle quote non ha bisogno. Perché la discriminazione non si elimina riducendone gli effetti, ma combattendone le cause.