Che Mario Draghi fosse piuttosto abile con la matematica lo davamo già per scontato. Le doti analitico-aritmetiche del neo Premier hanno subito avuto modo di mettersi in luce con la spartizione dei Ministeri tra le componenti politiche che appoggiano l’esecutivo da lui presieduto: tre rappresentanti ciascuno ai partiti in prima linea – con la sola eccezione del M5S che beneficia di quattro Ministri –, un perfetto equilibrio che ha riportato al potere la Lega e perfino Forza Italia (con il trio Carfagna, Gelmini, Brunetta).
Dove l’ex Presidente della BCE non è stato altrettanto accorto, però, è nella suddivisione delle competenze per genere (15 uomini, 8 donne) e, ancor peggio, per provenienza geografica. Alcune regioni d’Italia risultano completamente sprovviste di rappresentanti ai piani più alti del Palazzo: ben 18 sono i Ministri provenienti dal Nord, 9 dalla Lombardia, 4 dal Veneto, 2 dall’Emilia-Romagna, 1 da Piemonte, Liguria e Friuli; 2 per il Lazio e altrettanti per la Campania e la Basilicata, per un totale di 6 uffici al Sud. Una linea, quella di Draghi, in completa controtendenza rispetto al suo predecessore, Giuseppe Conte, che amministrava il Paese avvalendosi delle prestazioni del Centro-Sud con 14 Ministeri contro gli 8 del Nord. Una sproporzione contro cui in pochissimi hanno pensato di dover puntare la lente d’ingrandimento (al contrario, ai tempi Libero titolava: Comandano i terroni), forse appagati dall’ennesimo contentino offerto alle terre del Mezzogiorno, il Ministero per il Sud e coesione territoriale affidato a Mara Carfagna.
Che il governo dell’uomo considerato il migliore su piazza – quello per cui non una sola testata ha provato a proporre un contraddittorio alla distesa di lodi offerta a prescindere da ogni considerazione – abbia ritenuto opportuno confermare un Ministero nato per gestire un’area del Paese è offensivo e discriminante. In uno Stato – cosiddetto – normale, un ufficio di tale importanza, istituito a garanzia di un solo territorio dell’intera nazione, sortirebbe l’effetto contrario, ossia la sgradevole sensazione del favoritismo, di un supplemento d’attenzione verso una parte della popolazione. Il solo fatto che il governo italiano senta ancora, nel 2021, la necessità di affidare le sorti di una zona equivalente a un terzo del Paese a un Ministero ad hoc certifica quanto la parità che si mira a raggiungere sia ancora molto lontana.
Così facendo – chissà – l’esecutivo si sente sgravato da ogni altra responsabilità, come se il solo fatto di piazzare un proprio uomo o una propria donna a presidio del Mezzogiorno ripagasse di quanto, invece, viene sottratto alle regioni meridionali con le manovre messe in campo ogni giorno. Poco più di un anno fa, lo SVIMEZ, il centro di ricerca pubblico sullo sviluppo del Sud Italia, ha ricordato quanto il Nord riceva una percentuale della spesa pubblica di gran lunga superiore a quella destinata al Sud, circa 4mila euro a persona in più.
Per l’istituto, il Centro-Nord gode una spesa pro capite di 13400 euro contro i 10900 del Sud, cifra che cresce fino a 17mila euro contro i 13300 se alle spese della pubblica amministrazione si sommano quelle per il settore pubblico allargato (ENI, Ferrovie dello Stato, società municipalizzate, ecc.). Dove si spende meno è in Campania, 12mila euro, la regione d’appartenenza del neo Ministro Carfagna, abilissima nel cumulare voti (con 55695 preferenze, è stata il consigliere più votato di tutti i tempi alle elezioni regionali del 2010) quanto a scegliersi le poltrone più comode su cui sedere, dal momento che, proprio nel 2010, rifiutò il posto a Palazzo Santa Lucia per tenersi quello in Parlamento.
A dare man forte a quanto affermiamo, uno studio divulgato lo scorso anno da Eurispes, metteva in luce il danno perpetuato dallo Stato italiano ai danni di Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia, con un ammontare di ben 840 miliardi di risorse sottratte a favore del Nord nel periodo di tempo che va dal 2000 al 2017, circa 47 miliardi l’anno di fondi utili a infrastrutture e investimenti nel lavoro giovanile, l’unica speranza di futuro per le terre del Mezzogiorno, altrimenti a rischio desertificazione.
La vera avanguardia, in merito alle discrepanze che da sempre si prolungano, sarebbe eliminare il Ministero del Sud e dividere equamente le finanze a sé riservate, cancellare le forme di assistenzialismo con cui si raccattano i voti e mirare a una reale distribuzione dei fondi per il progresso, abolire l’idea delle autonomie e gestire lo Stato per ciò che è, una sola nazione, un solo popolo, che risponde a una sola Costituzione.
L’analisi che si intende proporre non va tanto a screditare la nomina dell’On. Mara Carfagna – per quanto ce ne sarebbe da scrivere: una donna in favore delle donne che, però, muove le sue battaglie accanto alla figura ben più che controversa di Silvio Berlusconi, un’amministratrice che in quanto a diritti civili e minoranze è già stata oggetto di forti critiche dalla comunità LGBT per le sue posizioni conservatrici (poi ritrattate negli anni a venire) –, quanto dell’ufficio a lei affidato in successione a Giuseppe Provenzano, del Conte Bis.
Se i 5 Stelle avevano fondato la loro campagna elettorale sulle criticità proprio del Sud Italia, e quindi sulle battaglie per l’ILVA di Taranto, il gasdotto del Salento e l’enorme dato della disoccupazione da aggredire con l’istituzione del reddito di cittadinanza (contro cui Carfagna si è già schierata, pronta a rimuoverlo), a Mario Draghi e la sua squadra viene riconosciuto uno status di team imbattibile, il meglio del meglio, l’equilibrio e la compattezza, tutto quanto, dunque, può e deve fare a meno di un Ministero discriminatorio e assicurare una reale, opportuna, ridistribuzione delle risorse atte a garantire una vera parità.