È stato un anno, il 2020, che difficilmente verrà dimenticato, trecentosessantacinque giorni passati alla storia per la pandemia da COVID-19 che ha messo in ginocchio i quattro angoli del pianeta sul piano sanitario, economico e sociale. In un recente articolo, il Time – la rivista settimanale più famosa al mondo – si è domandato se fosse appropriato parlarne come del peggiore di sempre. Quel che è certo è un dato sfuggito ai più: il 2020 è stato un anno di tredici lune.
L’anno con tredici lune è un evento raro nel calendario lunare, si dice causi terremoti emotivi a chi è dotato di una spiccata sensibilità. Dei dodici mesi scorsi si è scritto tanto, dibattuto in ogni salotto, con gli effetti del virus affacciatisi già anche nel cinema e nella letteratura. Ma quanto le persone sono pronte a fare i conti con mascherine e distanziamento sociale nelle loro serie tv preferite o tra le pagine dei romanzi?
È ciò che si è domandato Alessandro Gazoia, editor e saggista, che ha affidato la risposta direttamente ai protagonisti del suo romanzo d’esordio, appunto, Tredici lune (nottetempo). Nel suo primo tentativo con la narrativa, Gazoia affronta una storia d’amore tra due ragazzi – come molti – separati dal virus, utilizzando un espediente adatto a interrogare le tante situazioni e gli innumerevoli luoghi comuni (e i loro effetti) con cui tutti ci siamo trovati a fare i conti durante il lockdown della primavera passata.
In un contro-romanzo che è, in realtà, anche un contro-saggio – per le tante ricerche accademiche che Gazoia nasconde tra le pagine del racconto –, l’autore affronta gli aspetti più comuni del sentire umano alle prese con un ostacolo mai affrontato prima. Forte di un’esperienza straordinaria al lavoro sui libri degli altri, il nuovo direttore editoriale della casa editrice nottetempo riesce a far parlare di sé non soltanto per la sua recente svolta professionale – sintomo di aver inciso sul ruolo dell’editor in maniera significativa –, ma anche, e soprattutto, per un’avventura letteraria che ha già suscitato la curiosità dei principali blog di settore che hanno inserito Tredici lune tra gli esordi da non perdere di questo 2021. Lo abbiamo intervistato.
Una vita a lavorare ai libri degli altri: cosa ti ha spinto a saltare dall’altro lato della staccionata e a pubblicare il tuo primo romanzo? Come ti sei trovato nei panni dello scrittore?
«Adesso posso dirlo, mi sono nascosto per anni, negli altri miei libri, a cominciare dalle primissime scritture saggistiche, per poi spingermi sempre più verso la dimensione narrativa e ora siamo arrivati a questa cosa che chiamiamo romanzo, per quanto particolare e con una struttura peculiare. Devo essere sincero, in minimum fax ho avuto la fortuna di essere stato gettato subito in acqua per imparare a nuotare, lavorando – come ben sottolineavi – ai libri degli altri. Avevo cominciato con poche responsabilità, come lettore d’appoggio, ma sono cambiate presto tante cose e mi sono ritrovato nel ruolo di editor. Quella circostanza mi ha un po’ bloccato nella scrittura autoriale, devo però dirti la verità: editare testi di scrittori bravi, ma anche meno pronti, è una scuola straordinaria. Insomma, sono arrivato a Tredici lune con un’abilità tecnica che prima non avevo. In realtà, già con il mio titolo precedente (Giusto terrore, Il Saggiatore, 2018 – ndr), ero giunto subito al di qua del confine con il romanzo, ma c’era una ancora una dimensione saggistica importante».
A proposito di quest’ultima affermazione, la scheda della casa editrice nottetempo definisce Tredici lune un contro-romanzo, io però credo si possa parlare anche di contro-saggio.
«Esatto. Hai intuito due cose molto importanti. L’espressione contro-romanzo della pandemia viene dall’ufficio stampa della nottetempo ed è a mio avviso efficace. Anche perché – siamo onesti – nessuno ha voglia di leggere qualcosa sul virus, e io ho il terrore di finire nel calderone di quelli che hanno scritto il romanzo della pandemia. Questo libro invece nasce proprio dall’insofferenza di tutto quello che ho letto durante il lockdown di marzo. Il “contro”, in questo caso, arriva da lì. Poi, quello che tu hai colto, ed è una cosa molto vera, è che all’inizio la dimensione saggistica era molto più forte. Ma, nel corso della scrittura, il libro ha preso la sua forma attuale, Tredici lune voleva andare in una certa direzione, e ti posso anche dire che ho tagliato forse sessanta pagine saggistiche. Ho studiato a lungo di tantissimi aspetti legati alla condizione che stavamo vivendo, e avevo scritto delle cose che mi piacevano pure, però non erano coerenti con il tipo di romanzo che stava nascendo. Doveva esserci del pensiero ma non la postura didattica, non volevo spiegare».
Il romanzo è stato presentato anche come una storia d’amore tra due ragazzi separati dal virus. Eppure ho la sensazione che sia solo la punta dell’iceberg, il pretesto per la forte introspezione di un uomo che potrebbe essere ciascuno di noi, tra domande, debolezze, anche assurdità di questo periodo. Sbaglio?
«Il titolo Tredici lune è un omaggio a Fassbinder. Nel libro la mia chiave di lettura della scorsa primavera è: non stemperare le emozioni che già da sole avrebbero dovuto essere molto stemperate – dal momento che eravamo chiusi in casa, in isolamento ecc. –, ma aumentare al massimo l’intensità e pure il peso delle emozioni che non avevano alcuna realizzazione fisica. Con questa premessa e guardando alla storia della letteratura, cosa c’è di meglio di un amore lontano? Non a caso, un pensiero venuto in mente a tantissimi durante il lockdown è stato proprio “gli amanti divisi”. A me questo sembrava il modo migliore di mettere il narratore nella posizione di massimo scacco. Perché volevo narrare uno scacco, ma senza noia, lo dico chiaro.
Verso la fine del libro c’è una riflessione che verte su quando sarebbe stato giusto scrivere il vero romanzo della pandemia, e si riporta l’opinione comune: bisogna aspettare almeno vent’anni. Il narratore non vuole scriverlo quel romanzo ma sostiene polemicamente che non è per forza così. Io, Alessandro Gazoia, non ho voluto scrivere quel tipo di testo ma mi sono presto reso conto che Tredici lune è, paradossalmente, un “romanzo storico”. Quando, a fine gennaio 2021, leggiamo dati di oggi: 500 morti, questo non ci fa quasi più effetto, mentre a inizio marzo dell’anno scorso venti decessi erano una cosa insopportabile. Tredici lune è già diventato un romanzo storico: se ci pensi, le misure attuali non sono tanto diverse da quelle vissute appena nove mesi fa, le restrizioni ci sono ancora ma è cambiata totalmente la nostra percezione psicologica. Non era il mio obiettivo principale, ma con Tredici lune ho cercato di restituire anche cos’è stato quel tempo e come è stato vissuto, in una condizione di estremizzazione emotiva. E così, scusandomi per il giro lungo, ritorno alla storia d’amore».
Mi piace molto la frase che hai utilizzato per descrivere la vita dell’editor, non bisogna fare libri che corrono dietro alle ambulanze, perché le ambulanze vanno troppo veloci.
«Che è esattamente ciò che è accaduto rispetto alla pandemia. Io ne ero consapevole mentre lo scrivevo, motivo per cui non ho mai chiesto se fosse possibile uscire immediatamente a ridosso della fine del primo lockdown».
In Tredici lune ci sono tanti spunti, le storie del lockdown che tutti abbiamo provato, frasi che abbiamo sentito o detto, anche tanti luoghi comuni, come Wuhan, le mascherine cucite in casa, le patologie pregresse, i rider, le distanze tra i tavoli. È un modo di affrontare la narrazione di quei mesi, mostrandola senza filtri, per farci notare quanto fosse quasi assurda?
«Che sia stata una situazione irripetibile mi pare chiaro, non fosse altro che, come dicevamo prima, sul piano psicologico, nessuno riesce a tornare oggi a quella condizione. La mia idea era di raggruppare tutto quanto fosse il nuovo luogo comune e raccontarlo con le brevi narrazioni disseminate nel corpo del romanzo. Quei testi sono chiaramente scritti dal narratore, ma vogliono raccontare di un mondo fuori, oltre la stanza dov’era chiuso. Ho poi cercato una struttura che desse a ogni racconto un suo significato all’interno di una costruzione più grande».
Stai parlando delle microdemie. Quale necessità si cela dietro quei piccoli racconti? È come se avessi voluto fare i conti con l’oggi, in tutte le forme in cui si manifesta e con tutte le sue contraddizioni.
«Sì, esatto. Nel primo capitolo appare questo personaggio che si ritrova chiuso in casa e chiuso in se stesso. Come fare entrare l’altro in questo isolamento? Con degli esercizi di proiezione. Il narratore ha una visione parziale di questi fenomeni e cerca di uscire dal proprio io per raccontare qualcosa che tocca gli altri. Poi, nel lavoro testuale molte situazioni si sono presentate in maniera molto naturale».
Lo abbiamo già detto, il personaggio principale di Tredici lune è un editor. C’è dunque tanta della tua esperienza maturata in questi anni. Quali sono le caratteristiche di un buon editor?
«Una cosa che dice l’editor protagonista di Tredici lune è che lui conosce solo una parte dell’editoria. Vale anche per me. Penso che la figura dell’editor non vada mitizzata, anzi, credo debba essere analizzata nei contesti concreti in cui si esercita quella attività. Io ho sempre lavorato nel settore dell’editoria indipendente, in condizioni molto particolari rispetto ai gruppi editoriali, ad esempio ho quasi sempre scelto i testi su cui ho lavorato, è un lusso enorme. Non mi è mai arrivata la responsabilità di un bestseller da centomila copie, quella dimensione non la conosco. Credo però che resti sempre vero questo: l’editor non si deve mai sovrapporre all’autore ma deve cercare di portare lo scrittore a dare il massimo esercitando un’attività sia di stimolo sia di critica. Dico una cosa ovvia, l’autore e l’editor devono lavorare nell’interesse del testo, il narcisismo e l’autocompiacimento non hanno spazio. Ogni scrittore è diverso, ognuno ha bisogno di un approccio diverso. Si pensa, erroneamente, che l’editor sia invadente quando interviene molto sul testo, ma è un errore. Ci sono autori che propongono una prima stesura superficialmente sporca ma già matura e toccare molto quel tale manoscritto vuol dire banalmente pulirlo. Resta intatta la sostanza. Ce ne sono altri dove si interviene pochissimo ma, magari, su un punto nodale strategico, e quello è un lavoro molto più profondo. Ripeto, la cosa più importante è mettere da parte l’ego, il proprio e quello dell’autore. Ma tutte queste sono le situazioni ideali, con un autore capace e un testo valido… Il lavoro dell’editor non si svolge solo in condizioni ideali ma questo è materiale per un altro racconto, che non scriverò io».
Qual è il tuo metodo per ricercare il testo ideale?
«In generale, compito dell’editor è trovare ciò che spicca nella piattezza della maggior parte del materiale che viene proposto ma il lavoro cambia a seconda delle situazioni. Un libro come Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio avrei potuto consigliarlo soltanto a una casa editrice come minimum fax, dove era molto chiaro che con la collana nichel c’erano certi margini di sperimentazione. Si usano i soliti luoghi comuni, la voce dell’autore, lo sguardo, l’originalità… ma è vero che spesso già dopo tre pagine, se un libro funziona lo senti, te ne rendi conto da come girano le frasi, da come ti dimentichi che stai leggendo per lavoro. E, al contrario, difficilmente cambio idea se un libro non mi ha convinto proprio per nulla dopo le prime battute, se la prima cartella è pessima».
Cosa ti aspetti, cosa ti auguri e cosa sogni dal tuo futuro?
«La cosa che più mi auguro come autore è di poter continuare nel percorso aperto con Tredici lune. Michele Mari dice che l’ispirazione esiste e, se lo dice lui, esiste anche per me, dunque spero di trovare di nuovo la stessa ispirazione che mi ha spinto a scrivere Tredici lune. Come editor, invece, c’è sempre il desiderio di riuscire a trovare autori nuovi e di aiutarli a crescere nella consapevolezza di essere scrittori. Forse l’unica dote che ho, come editor che è anche scrittore, è che non sono per nulla invidioso della bravura degli autori che edito, dunque vederli raggiungere quella consapevolezza, e ancora di più vederli crescere nel loro percorso di scrittori e scrittrici, mi rende veramente felice».