La ricerca della verità è un obiettivo molto ambizioso. Qualcuno potrebbe obiettare che la verità assoluta non esiste, che anche ciò che diamo per scontato è una costruzione, macchinazione della realtà che noi stessi abbiamo costruito, ma la tendenza a mettere tutto in discussione, nata come sana abitudine e finita nell’irrazionalità odierna, ha preso pieghe sconcertanti. Mai come in questo momento, mai come nel corso dello scorso anno, sono state opinate questioni inopinabili, sono state messe in discussione verità indiscutibili, attaccati fatti comprovati e dimostrazioni scientifiche, contribuendo forse inconsciamente ad alimentare la tendenza a sfuggire ai fatti, a rinnegarli a tal punto da decidere di eliminare chi prova a sostenere tesi scomode ma incontestabili.
Negli ultimi mesi, i giornalisti incriminati o uccisi per il loro lavoro hanno raggiunto numeri sconcertanti. Se la situazione mondiale della libertà di stampa non appare evidente dagli eventi, l’ultimo rapporto di Reporter Senza Frontiere chiarisce ogni dubbio. Nell’ultimo anno, sono state 387 le persone arrestate a causa del loro lavoro nel campo dell’informazione. La maggior parte degli arresti è avvenuta in quei luoghi del mondo in cui quasi ci si aspetta che i diritti, come quello di libera stampa, non siano rispettati, ma le vicende dello 2020 si sono rivelate una buona scusa per minacciare la libertà anche in Occidente.
Mentre la Cina ha incarcerato 117 giornalisti, l’Arabia Saudita 34, l’Egitto 30, il Vietnam 28 e la Siria 27, la situazione negli Stati Uniti, infatti, non è risultata meno grave. Durante le manifestazioni del movimento Black Lives Matter della scorsa estate, ad esempio, sono stati 110 i reporter arrestati e incriminati. Sebbene la maggior parte di essi sia stata rilasciata – ma saranno comunque in 12 a dover affrontare un processo –, la loro incriminazione probabilmente rappresenta un segnale di sospensione di quel silenzioso patto tra stampa e istituzioni secondo cui i giornalisti sono osservatori neutrali che, per motivi professionali, devono presenziare agli eventi di protesta e non possono certamente essere coinvolti nelle retate. Eppure, ormai divenuti nemici delle istituzioni grazie alla narrazione imposta dal Presidente uscente, sembra che i reporter abbiano perso questo privilegio proprio nel Paese che vanta di essere la patria della libertà. E se peggioramenti del genere avvengono negli USA, è difficile non immaginare cosa accada nel resto del mondo.
Come se tutto ciò non bastasse, la situazione è stata ulteriormente aggravata dalla pandemia. La copertura mediatica della COVID è stata la protagonista della censura e delle violazioni alla libertà di stampa in tutto l’emisfero settentrionale. RSF ha registrato un peggioramento delle condizioni a partire dalla primavera 2020, coinvolgendo abusi su 450 giornalisti. Anche il numero degli arresti è quadruplicato da marzo a maggio scorsi, grazie alle misure d’emergenza prese in gran parte del mondo, che sono poi diventate il perfetto pretesto per mettere un bavaglio ai media più scomodi.
Il lavoro di Reporter Senza Frontiere, d’altronde, mostra una situazione piuttosto allarmante non solo riguardo la detenzione dei professionisti dell’informazione, ma anche riguardo la loro esecuzione. Se da un lato sono diminuiti i giornalisti rimasti uccisi sul lavoro mentre assistevano a situazioni pericolose come conflitti armati, sono aumentate esponenzialmente le morti mirate. Risale solo a pochi giorni fa, il primo gennaio, l’ultima vittima di un attacco diretto: Bismillah Adil Aimaq, giornalista afghano e difensore dei diritti umani, è stato ucciso da due uomini armati. L’uomo era già sopravvissuto a un ulteriore attentato alcuni mesi fa, ma non è sfuggito all’ultimo, che l’ha reso il quinto giornalista assassinato in Afghanistan nel giro di due mesi. Sono inoltre numerosi gli incidenti non rivendicati che coinvolgono reporter e attivisti per i diritti umani. In cima alla lista dei luoghi più pericolosi per i media, scala ancora una volta le classifiche il Messico, nel quale sono stati uccisi almeno 8 giornalisti che indagavano sulla criminalità organizzata e la corruzione. Compaiono anche l’Iraq, dove sono stati uccisi 6 giornalisti, il Pakistan e l’India, che hanno invece avuto 4 morti.
L’ostilità nei confronti degli uomini e delle donne al servizio dell’informazione non rappresenta certamente una novità. Figure scomode sin dagli albori della professione, difficilmente i giornalisti più coraggiosi hanno avuto vita facile, soprattutto in quei luoghi del mondo in cui la libertà non esiste e la dissidenza è un reato da pena di morte. Ciò che risulta inaccettabile è però la persistenza di queste abitudini, l’incontrollata esistenza di regimi che non hanno scrupoli nel chiudere le bocche di chi tenta di informare i cittadini. E quando questi gravi delitti non avvengono per mano di assassini non identificati, ma da parte dei governi, la libertà perde ogni speranza. È il terribile caso di Ruhollah Zam, giornalista iraniano condannato a morte tramite impiccagione lo scorso dicembre. Reo di aver fatto propaganda contro il sistema a causa del canale Telegram che aveva fondato e nel quale aveva diffuso notizie sulla corruzione di personaggi autorevoli del Paese, Zam è stato condannato a morte con accuse fin troppo vaghe per una pena tanto definitiva e il 12 dicembre la sentenza è stata eseguita.
Sebbene la comunità internazionale abbia già numerose volte invitato i Paesi in cui la condanna a morte è ancora in vigore di applicarla solo in casi di estrema gravità, l’Iran non si è mai fatto scrupoli e, anzi, da quaranta anni è uno dei Paesi più repressivi nei confronti della stampa. Secondo le ricerche di RSF, dal 1979 al 2009 sono stati almeno 860 i giornalisti e gli attivisti imprigionati o impiccati all’interno del Paese, e le condanne della comunità internazionale non sono bastate per fermare quest’ultimo grave atto punitivo. L’Iran resta anche la seconda nazione al mondo per condanne a morte secondo le stime di Amnesty International, che ritiene scandalosamente iniqui i processi di uno Stato che nel 2019 ha impiccato più di 250 persone, secondo solo alla Cina, e che tra giornalisti, dissidenti e personaggi scomodi, ha ucciso, invece, più di mille persone.
I regimi di repressione, che siano ufficiali o meno, che appartengano all’Oriente o all’Occidente, rappresentano una grave minaccia alla libertà di tutti, non solo a quella dei giornalisti che vedono la propria professione e la loro stessa vita in pericolo costante. L’importanza dell’informazione va molto oltre ciò che abitualmente si pensa perché consente ai cittadini di disporre di tutti i dati necessari per sviluppare le opinioni e orientare i comportamenti di voto. Con la situazione di repressione attuale, non sono dunque solo i diritti alla vita di chi è minacciato, incarcerato o impiccato a essere lesi, ma il diritto alla libertà di tutti i cittadini che, però, senza una stampa indipendente, neanche possono rendersi conto delle ingiustizie che subiscono. E tirando le somme di ciò che è accaduto nel mondo nell’ultimo delicato anno, non si può che aspettarsi mesi complicati per i diritti umani.