Alla sua prima prova saggistica, edita minimum fax, Elisa Cuter propone di ripartire dal desiderio per esaminare da vicino le crepe del modello tardocapitalista e per analizzare la questione del genere e della lotta fra i sessi alla luce di una femminilizzazione dei soggetti. Il libro è densissimo e ambizioso, accurato e ricco di spunti. Alcune intuizioni sono brillanti, moltissime delle argomentazioni provocatorie e destabilizzanti.
La scelta di quel ripartire come titolo del libro si presta a molteplici interpretazioni: ricominciare con un nuovo slancio (che, l’autrice fa notare, assume contorni tutti nuovi nel contesto pandemico con il quale ci troviamo a fare i conti) ma anche suddividere, (re)distribuire. Una redistribuzione del desiderio che significa riappropriazione della dimensione umana attraverso l’analisi, la critica, la discesa nelle profondità delle posizioni conflittuali implicite nella femminilizzazione. Desiderio, invece, è da intendere come qualcosa di diverso dal piacere, qualcosa di lontano dall’imperativo di consumare percepito come bisogno. È tensione, controversia, astrazione dalla norma. È riconoscersi come soggetto desiderante e immaginarsi oggetto desiderato, dilatare le contraddizioni dell’io in un esercizio che escluda l’etica, nella sua accezione contemporanea, per comprendere l’altro e il mondo.
Il terreno d’indagine prescelto è dunque l’arte in senso lato: il cinema, la letteratura, la tv, la pubblicità. Dottoranda e ricercatrice alla Filmuniversität Konrad Wolf di Babelsberg, Cuter legge la società attraverso la macchina da presa: fa dei film, dei libri, delle serie tv strumenti postmoderni tramite i quali decostruire, sezionare, sussumere il reale. Giacché il desiderio è sempre espressione di intimità, gli interrogativi che si pone l’autrice scaturiscono da vicende esperite in prima persona, scampoli di memorie destabilizzanti, epifanie che hanno smarginato (per dirla come Elena Ferrante) il mondo e le convinzioni di Cuter donna. Esaminare e prendere ad esempio cinema e tv ha diverse conseguenze: anzitutto spinge il lettore a riflettere sul valore delle immagini, dei generi come performance.
Già nell’introduzione l’autrice sviscera il rapporto di co-dipendenza di Ambra Angiolini e Gianni Boncompagni negli anni del programma cult Non è la Rai: se, a una prima occhiata, si potrebbe archiviare la vicenda come ennesimo caso di sfruttamento dell’immagine del corpo femminile giovane esposto allo scrutinio lussurioso del pubblico a casa (cosa che comunque non viene esclusa), è d’altro canto innegabile che la figura di Boncompagni sia quella di un uomo che nonostante il successo, la competenza, la visibilità e il potere di cui dispone è costretto a scomparire dietro a una quindicenne.
Per Cuter, vediamo qui già una forma di empowerment femminile, e allo stesso tempo i motivi di quella che potremmo chiamare una femminilizzazione del nostro immaginario, che riguarda tanti livelli: la femminilizzazione del potere, del mercato, e di singoli individui, proprio come Boncompagni. Quando parliamo di femminilizzazione facciamo riferimento alla teoria esposta da Andrea Long Chu secondo la quale tutti gli esseri umani sono, in realtà, femmine, ma non necessariamente tutte le femmine sono donne. Per femmina si intende quel soggetto che sacrifica il sé per far spazio ai desideri di un’altra persona. Questi possono essere reali o immaginari, ma in ogni caso il sé viene svuotato, trasformato nell’incubatore di una forza aliena. Essere femmina è lasciare che qualcuno desideri al posto tuo, a tue spese. […] Essere femmina, se non sempre doloroso, è sempre dannoso.
L’individuo femminilizzato odia la sua condizione perché implica passività rispetto al desiderio di qualcun altro, vulnerabilità, arrendevolezza, impotenza. L’individuo femmina desidera come gli altri, ma desidera d’essere desiderato: sessualità e corpo diventano capitale erotico. La femmina si detesta ed è compliant nei confronti del sistema che le promette l’emancipazione, la fine del terrore della castrazione, attraverso il consumare e il farsi consumare. In questo senso, Cuter suggerisce che la donna è l’impiegato ideale del modello tardocapitalista postfordista.
L’individuo femmina è sempre mercificato. Il tardocapitalismo si appropria della retorica femminista e partorisce una sua versione pop da dare in pasto alle masse, un femminismo conforme e allineato il cui imperativo è la gradevolezza o, se vogliamo, la desiderabilità, ancora una volta. È quello dei progetti editoriali come Freeda (che Cuter critica apertamente), quello delle pubblicità delle creme depilatorie e degli assorbenti e della biancheria intima, quello delle influencer su Instagram: un femminismo glamour che rovescia gli stereotipi solo per riaffermarli con più forza sotto una veste nuova. Se prima la commercializzazione di prodotti per la cura del corpo faceva apertamente appello al potenziale erotico e sessuale che una donna deve sprigionare sempre per qualcun altro, adesso, a parità di modello femminile, la narrazione è cambiata: l’emancipazione si ottiene facendo di quel capitale sessuale uno strumento per esercitare il potere, di affermazione del sé. Perché bisogna piacersi, bisogna volersi bene, bisogna amarsi, fotografarsi, postarsi, esibirsi. Ma solo per noi stessi.
Anche gli uomini, in quanto femmine, sono sensibili a questa narrazione: Cuter riferisce, ad esempio, delle discussioni nei gruppi e forum di incel, in cui la misoginia più sfrenata si mescola al pietismo di questi individui fondamentalmente passivi che quasi godono nel vittimizzarsi nel ruolo di maschi ributtanti. Tra gli incel si fanno largo istruzioni per lookmaxare, cioè massimizzare il proprio aspetto per essere desiderati dalle donne. Esattamente quello che le riviste femminili ci hanno venduto per anni. Quello degli incel è un fenomeno estremo, che però serve a Cuter per analizzare una delle tante forme in cui si esprime il rimosso della società. E cosa ha rimosso la società se non il diritto legittimo a definirsi attraverso il desiderio sfrenato? Il sesso, lamenta Cuter, è diventato pedagogia e atto di cura. E in questa trasformazione della sfera sessuale il pericolo è per l’appunto percepirci individui femmine, bisognosi di cura al punto da delegare ogni responsabilità a qualcun altro, abbandonarci all’estetica di un narcisismo effimero che ha come fine ultimo la trascendenza in oggetto del desiderio.
L’essere femmina si declina, per Cuter, in tre macro-categorie: la Madre, l’infante, la troia. Queste categorie si estendono, più che agli individui, alla società intera e, tra loro, l’unica che (anche se debolmente) riesce a emanciparsi tramite il desiderio è la troia. La Madre, con la M maiuscola, è una sorta di Super-io giudicante, l’occhio della società nel luogo più intimo, che non impone con la forza come il Padre osceno, ma con la vergogna, l’umiliazione, il senso di colpa. Quella della Madre è una figura che Cuter deriva direttamente dalla divisione binaria del lavoro nella famiglia nucleare di stampo patriarcale. La Madre è la morale, il braccio destro del potere: L’oltraggio morale appartiene alla madre, è corredato del dolore che le si infligge nel trasgredire a quelle che vanno interiorizzate come responsabilità: non le si discute, se si ha un cuore. Questo sillogismo impedisce di vederle come norme sociali, coercitive, arbitrarie, negoziabili, sulle quali è richiesto di posizionarsi (si può farle proprie o ribellarsi): diventano delle responsabilità morali. Qui è possibile scorgere il passaggio che la nostra società sta attuando nell’affidare il ruolo di comunicatore dal Padre alla Madre (Matrigna).
La gestione della comunicazione in pandemia ne è un esempio: continui appelli alla morale pubblica, al senso del dovere, al fare la cosa giusta. Reiterate rassicurazioni che la linea d’azione del governo sia la migliore possibile per il nostro bene e che dobbiamo comportarci bene per tornare alla normalità. Di fronte alla morale della Madre siamo tutti infantilizzati, siamo privi di potere e incapaci di desiderare per noi stessi. Qualcun altro deve traghettarci nella nostra condizione precaria. Laddove riuscissimo a desiderare, quel desiderio dovrebbe essere addomesticato, incanalato, ricondotto nei ranghi del socialmente accettabile, posticipato in attesa di tempi migliori, sacrificato sull’altare del bene comune.
A ben pensarci, non c’è, forse, un periodo in cui capiti di riflettere sul desiderio più del Natale capitalista. Insegniamo ai bambini a desiderare oggetti inviando per iscritto una richiesta (più una specie di preghiera) a Babbo Natale, un’entità misteriosa e invisibile che vigila sulla buona condotta del pargolo prima di decidere se premiarlo. Insegniamo loro che il desiderio è sempre quantificabile, riconducibile a un prezzo, raggiungibile con lo status e il potere d’acquisto. Insegniamo loro, così come è stato insegnato a noi, che consumare è il premio per essere stati bravi. E questa frenesia al consumo a tutti i costi, quest’anno, assume una piega perturbante, kafkiana. Le fiumane di persone intente allo shopping natalizio si contrappongono alle file chilometriche fuori dalle mense per i poveri. Le prime si muovono per la brama del loro premio (e qui potremmo azzardare che il desiderio, anche quello inculcato dal modello capitalista, è motore che mobilita alla ricerca di una sua soddisfazione), quasi impazzite all’idea d’esserne private. Le seconde si muovono per bisogno, per necessità, curve sotto il peso dell’umiliazione che attribuiamo alla povertà. Entrambe le categorie sono infantilizzate, femminilizzate: chi può ancora essere messo a profitto dal sistema, illuso d’essere agente del proprio desiderio, e chi è ricaduto ai margini, svuotato anche di quell’illusione e suscitante, negli individui che si credono desideranti, solo pena e paura.
Abbiamo introdotto una correlazione tra desiderio e merito che in realtà non esiste. Il desiderio è esplorativo e astratto. Il suo stesso concretizzarsi in oggetto, in azione, implicherebbe il passaggio a un volere successivo, un nuovo orizzonte d’esplorazione. Siccome non possiamo fare a meno di desiderare, di sognare il desiderio, il merito non c’entra proprio niente. È, anzi, questa pretesa che noi desideriamo solo sulla base di un merito attribuitoci dall’esterno che forma una spaccatura, una crepa.
Il fatto che per penetrare in questa frattura Cuter si affidi all’arte e alla televisione è emblematico proprio del valore esplorativo della fantasia desiderante. È l’arte in senso lato il luogo del desiderio soddisfatto, del desiderio sofferto e mai appagato, del desiderio controverso e anche moralmente inaccettabile. Ripartire dal desiderio, sembra suggerirci Cuter, è ricercare nei libri, nei prodotti televisivi, nelle serie, nei film, quella tensione estatica che spinge a porsi domande sul mondo. Sono le domande e i dubbi, molto più che le risposte e le ricette risolutive, a cambiare davvero qualcosa.