Napoli è un museo a cielo aperto. Ed è troppa. Suggestivo camminarci col naso all’insù, osservando vicoli di cielo nei quali, a tratti, trasvola l’angelo di Wim Wenders o, abbassando la testa, ascoltare il rimbombo dei passi sulle sorde caverne del sottosuolo pensando alla Sophìa degli gnostici per cui il sopra è come il sotto. Talvolta, ti senti pedinato dalla tua ombra, appiccicaticcia e col saio monacale. Se sei fortunato, incontri a Via del Sole lo Scaramurè di Giordano Bruno o, a Port’Alba, Nicola Antonio Stigliola con le dita sporche d’inchiostro tipografico.
Napoli, non diversa da altre metropoli in ordine a illegalità, custodisce nel profondo, nello scorrere del Sebeto, Pietas e Charitas, la pietà virgiliana e la carità paolina, dominanti nella troppezza e nello sbilanciamento di natura-cultura. Pietas e Charitas appaiono nei comportamenti quotidiani e in piccole cose come, per esempio, il sistemare in varie edicole votive e purgatoriali la monaca De Marco, uccisa nel ’600 per una sua relazione con un sacerdote. Benjamin, forse asciugandosi il sudore sciroccato dalla fronte, definì porosa l’anima tufacea di Partenope. Jung rimase imbambolato dalla domesticità dei simboli a Napoli. Domesticità implica frequentazione, consuetudine. Dunque, ciò che meravigliò l’analista svizzero fu la familiarità di Napoli con il mondo simbolico e onirico. La stessa gestualità dei napoletani ha strati antichissimi, il che suscitò la curiosità di Andrea De Jorio nel 1832 che li analizzò intercettandone l’origine in autori latini.
Il simbolo è pericoloso: c’è ma non si vede. Per capirlo, lo devi rivivere, contestualizzato, perché la città ti appaia con un nuovo ordine di senso. È questo il lavoro del detective Marco Perillo che con Le incredibili curiosità di Napoli (Newton Compton, 2020) ci accompagna attraverso una città che, grazie all’autore, ritorna Neapolis, aggiungendo un altro bel titolo ai numerosi da lui già pubblicati su Partenope.
Lo stile è piano, a tratti didattico, utile per i turisti come per gli stessi napoletani e non è peregrino pensare che tutti i titoli di Perillo sarebbero molto utili se adottati dalle scuole in quanto gli studenti conoscono poco della loro città. Un dato: chiedete ai ragazzi chi è Roberto De Simone, dove si trova il Palazzo Penne o cos’era il Banco dell’Acqua. Non vi sanno rispondere.
I Banchi dell’Acqua, già. Ancora molto presenti a Catania, la mia generazione li frequentava per bere ll’acqua ‘e senz (acqua col seltz ottenuto col limone e na ponta ‘e bicarbunato). Chissà perché, gironzolando nel libro di Perillo, si ha sete ed è un gironzolare con in mano una cartina antica di Napoli, riproposta, in cui finalmente rivedere con un colpo d’occhio dove si trovava Il cavallo colossale, dove il tempio di Ercole, dove la casa di Virgilio. Molte le informazioni del tutto dimenticate, come il vicolo delle nane (nei pressi delle scale di Santa Barbara) descritto da Malaparte. Basterebbe già questo per trovarsi a Paradossia, città invisibile non inventariata da Calvino.
Perillo è un giovane giornalista e non si può non ammirarne il fiuto, il suo partecipare alla lampadedromia (corsa con le fiaccole) in onore di Partenope che, dicevamo, è la fiaccola di senso che i mortali si passano l’uno l’altro (Lucrezio). Gli indizi che Perillo intercetta ci consegnano una Napoli nobilissima e, insieme, plebea, un labirinto verticale non solo di immagini ma anche di suoni, di voci, di poeti come Boccaccio confusi con i mercatali nel centro storico che, diversamente da altri (come il Barrio Gotico di Barcellona), non è stato rifatto perdendo buona parte del suo fascino, ancora abitato dalle stesse famiglie da molte generazioni.
Se vi voltate a guardare la fila di turisti che, come voi, seguono Perillo, vedrete persone vestite come alla loro epoca, famose o anonime, e, giunti davanti a San Gennaro, capirete che al Santo il sangue si scioglie due volte l’anno ma che al popolo napoletano si scioglie tutti i giorni.
Il aangue di San Gennaro,non si scioglie tre volte l’anno?