L’immissione in commercio di un farmaco è preceduta da una serie di studi complessi atti ad accertarne tossicità ed efficacia. Dopo un periodo di analisi sperimentale su animali, il farmaco viene somministrato in genere a volontari sani non anziani per valutarne la tollerabilità e gli effetti collaterali sulla base dei risultati delle sperimentazioni sugli animali. Si chiama fase 1.
Successivamente, il farmaco viene somministrato a gruppi di pazienti volontari, a dosi diverse, con un gruppo di altri pazienti che invece prende un placebo, allo scopo di determinare la dose corrispondente al massimo dell’efficacia, anche in relazione alla tollerabilità. Questa è la fase 2 che, in caso di patologia particolarmente grave, può coincidere con la fase 1 (nel senso che il farmaco in fase 1 può essere somministrato direttamente ai pazienti e non a volontari sani). Gli studi in fase 2 sono in genere condotti senza che né il paziente né il medico siano a conoscenza della natura del prodotto somministrato e del dosaggio (nel senso che sia il farmaco che il placebo hanno identica forma e confezione). Questo modo di procedere si chiama doppio cieco.
Infine, il farmaco viene somministrato, per studiarne l’efficacia e gli effetti indesiderati in un numero molto elevato di pazienti (diverse migliaia) al dosaggio più efficace e tollerato, desunto in fase 2. Questi studi di fase 3 vengono condotti rigorosamente in doppio cieco con un gruppo altrettanto numeroso di pazienti, con caratteristiche del tutto affini, che riceve un placebo o un altro farmaco simile. Queste sperimentazioni durano alcuni mesi, ma l’osservazione clinica viene poi in genere prolungata a 4-5 anni per monitorare effetti indesiderati a distanza di tempo. Gli studi di fase 3, a volte combinati con studi di fase 2, hanno l’obiettivo di dimostrare che un farmaco effettivamente cura (o previene) una certa malattia più efficacemente di un placebo o di un altro farmaco, o che non è peggio di un farmaco simile già in commercio.
Credo che questa premessa sintetica fosse necessaria.
I vaccini anti SARS-CoV2 in corso di sperimentazione clinica sono 51, ma di questi solo 13 sono in fase 3, gli altri sono in fase 1 o 2. In più, esistono altri 163 candidati vaccini in valutazione pre-clinica, basati su diverse tecnologie.
In estrema sintesi, le tecnologie impiegate finora che hanno raggiunto la fase 3 sono
– vaccini con virus inattivati o attenuati: questa tecnica utilizza una forma del virus che è stata manipolata in maniera tale da non poter causare la malattia, ma genera comunque un’adeguata risposta immunitaria. È un metodo tradizionale che si usa anche per i vaccini antinfluenzali. La maggior parte dei vaccini prodotti in Cina è basata su questa tecnica. È considerato un metodo molto sicuro, per la lunga esperienza acquisita, benché la copertura vaccinale non sia ritenuta totale (nel senso che ci possono essere individui non protetti a sufficienza).
– Vaccini a base di proteine virali: questa tecnica utilizza frammenti innocui di proteine che imitano il virus e che generano una risposta immunitaria. In particolare, utilizza proteine ricombinanti, cioè prodotte mediante il trasferimento del gene che codifica per quella proteina (il pezzetto di DNA che la produce) nel DNA di un organismo (di solito un batterio) che serve da fabbrica. È una tecnologia consolidata con cui si ottiene, ad esempio, l’insulina per i diabetici. Anche questa tecnica è usata per alcuni vaccini cinesi e in alcune aziende occidentali, per esempio la Sanofi-GSK, che con essa produce la proteina S, quella che permette al virus l’ingresso nelle cellule.
– Vaccini a RNAm o DNA: questa tecnica, completamente nuova, assomiglia alla precedente, perché il risultato è simile, cioè la produzione di proteine che evochino una risposta immunitaria adeguata, ma vi si differenzia perché non viene iniettata la proteina ma l’acido nucleico, RNAm o DNA geneticamente modificato, che codifica per la proteina direttamente nell’organismo ospite. Un effetto potenziale di questa tecnologia sarà la sua applicabilità in altri ambiti terapeutici (per esempio i tumori), un’importantissima innovazione tecnologica.
– Vaccini virali vettoriali: questa tecnica utilizza virus (in generale adenovirus) geneticamente modificati in modo che non possano causare malattie, ma producano proteine caratteristiche del SARS-CoV2. Questi vaccini evocano una risposta immunitaria completa, sia di tipo cellulare (che è la prima reazione dell’organismo all’arrivo di un agente infettante) sia anticorpale neutralizzante (che invece arriva con un po’ di ritardo nel processo naturale di difesa).
Questa tecnica è quella utilizzata in Europa da AstraZeneca e in Russia (Sputnik V), ma anche da tanti altri, ed è stata utilizzata in molte procedure di trasferimento genetico a scopo terapeutico per un periodo di tempo piuttosto lungo (quindi l’esperienza è consolidata e si sa che non produce effetti avversi sulla distanza). I reali effetti del vaccino AstraZeneca sono ancora da determinare, malgrado le rassicurazioni dell’azienda, perché i risultati presentati non provengono da un singolo studio clinico con un disegno preciso e obiettivi statisticamente calibrati, come hanno fatto Pfizer e Moderna (i risultati di Pfizer sono stati appena pubblicati su New England Journal of Medicine) ma da due diversi studi di fase 3 che hanno utilizzato disegni differenti (con dosi e gruppi di controllo differenti) e sono poi stati messi insieme in modo non del tutto appropriato. Si presume che nessuno degli studi da cui hanno combinato i dati avrebbe potuto fornire una risposta chiara sull’efficacia del vaccino.
A peggiorare le cose, AstraZeneca ha riportato solo i risultati per alcuni sottogruppi di persone all’interno di ciascuno studio. Infine, nessuno di essi era stato disegnato per dimostrare efficacia della dose e del modo di somministrazione adottato durante uno degli studi per mero errore, e poi dimostratosi più efficace, apparentemente, del protocollo originario su cui gli studi erano stati disegnati. Come si vede, una mancanza di rigore preoccupante in una materia così delicata, benché il miglior funzionamento documentato con l’errore possa avere una sua spiegazione fisiopatologica.
La particolarità dell’approccio russo, del quale si ignora tutto, è nell’utilizzo di due diversi vettori adenovirali (e non uno) che portano lo stesso gene (proteina S). Secondo gli scienziati sovietici, la risposta immunitaria sarebbe più intensa e di maggiore durata rispetto ai vaccini che somministrano due volte lo stesso vettore. Questo postulato è basato sull’esperienza acquisita con il vaccino contro il virus Ebola, sviluppato in Russia e brevettato nel 2015. Va però chiarito che i vettori adenovirali russi sono di origine umana e quindi, a causa della loro diffusione nell’uomo, sono suscettibili a incontrare immunità anti-adenovirus (cose che gli stessi russi rimarcano), mentre l’adenovirus utilizzato da AstraZeneca origina negli scimpanzé (ed è utilizzato sulla base di una vecchia intuizione di un grande scienziato della Federico II, Riccardo Cortese, alla fine degli anni Novanta), quindi meno soggetto a trovare nell’uomo un movimento immunitario neutralizzante.
La mancanza di trasparenza sulla tecnologia impiegata dai russi, insieme con l’alto tasso di propaganda che accompagna questa vicenda, ha sollevato dubbi nella comunità scientifica occidentale, ma le chat aperte dai volontari su Telegram (ammesso e non concesso che non siano farlocche) esprimono entusiasmo per l’efficacia dello Sputnik V che, apparentemente, conferma quella dichiarata. Va anche sottolineato che il costo del vaccino russo è 1/3 di quello degli altri vaccini con efficacia documentata simile (>90%).
Rimangono due domande: quanto protetti saremo e per quanto tempo? I vaccini proteggeranno dall’infezione o dalla malattia?
La risposta alla prima domanda è teoricamente semplice. La protezione che si ottiene con i vaccini varia a seconda della malattia e varia da persona a persona. Poiché questo virus è nuovo, non sappiamo per quanto tempo potrà durare l’immunità naturale (che è quella che è mediata dalle cellule che costituiscono la nostra polizia di frontiera e che tentano di impedire al virus di invadere l’organismo). Talune prime prove, basate su alcune persone, sembrano suggerire che l’immunità naturale potrebbe non durare molto a lungo, ma sappiamo che gli anticorpi neutralizzanti evocati dalla vaccinazione possono durare fino a 6 mesi (che è il periodo studiato dall’insorgenza dell’epidemia), ma forse anche di più.
La risposta alla seconda domanda è molto più difficile. Il Governo (per la verità non solo quello italiano) spera che l’immunizzazione di almeno due terzi della popolazione (secondo i calcoli dell’OMS) fermerà la pandemia e proteggerà le comunità, e trasmette questa aspettativa nella comunicazione. E se questa aspettativa fosse malriposta?
Quello che l’evidenza suggerisce finora è che i primi vaccini anti SARS-CoV2 che arriveranno sul mercato sicuramente proteggeranno moltissime persone dallo sviluppare la malattia, ma non si può escludere che le persone continueranno a contrarre l’infezione e la trasmetteranno ad altri, una possibilità tanto più concreta quanto più si insinuerà nella gente l’idea che la protezione individuale significa anche protezione della popolazione, due obiettivi completamente diversi. Naturalmente una vaccinazione estesa ridurrà la circolazione del virus, ma non la bloccherà. «Può darsi che le persone vaccinate diffondano una carica virale ridotta, ma sarebbe un errore presumere che la sola vaccinazione possa sopprimere una pandemia» ha detto il Prof. Bodo Plachter, vicedirettore dell’Istituto di Virologia dell’Università di Mainz, in un’intervista rilasciata a Reuters il 18 novembre.
I tempi per vaccinare il 60-70% della popolazione saranno, inevitabilmente, lunghi e a questo si deve aggiungere anche il tempo di latenza tra la somministrazione del vaccino e l’acquisizione di un’efficace protezione individuale, e le incognite sulla protezione effettiva dalla diffusione dell’infezione. Alimentare aspettative messianiche sul fatto che a vaccinazione iniziata la pandemia sarà vinta e tutti ci potremo riappropriare della nostra vita è quanto di più sbagliato si possa concepire, frutto di una comunicazione alimentata da incompetenza e, va detto, propaganda, forse meno becera di quella russa, certo, ma altrettanto esiziale.
Con l’inizio delle vaccinazioni, la partita sarà appena cominciata e più che mai noi dovremo tenere gli occhi spalancati per evitare di causare nuove ondate epidemiche, presi come saremo dalla sicurezza che il vaccino starà risolvendo i nostri problemi. Non è così. Il vaccino per ora ci consentirà di approntare meglio le nostre difese per affrontare l’assedio che sarà lungo. Lungo assai. Così sarà tutto il 2021 almeno. È bene che si sappia e che ce ne facciamo una ragione. Chiunque presenti un quadro diverso o è ignorante o è in malafede. O può anche essere ignorante in malafede.
A cura del Prof. Giovanni de Simone, già ordinario di Medicina Interna presso il Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate dell’Università Federico II di Napoli e Past-President del Council on Hypertension dell’European Society of Cardiology