Non sappiamo ancora come mai, ma ogni volta che sentiamo parlare Matteo Renzi o leggiamo sue interviste, seguiamo sempre con particolare interesse quello che dice, attenti ad analizzarne parole e gesti. Forse è perché non ci vogliamo abbastanza bene o, probabilmente, perché non appena si alza dal suo scranno, ci viene impossibile non collegare ogni sua frase a contraddizioni, figuracce, disastri e sciagure che lui stesso ha provocato e che ora imputa ad altri. E l’unico elemento coerente che riusciamo a trovare nel suo percorso è quel rumore di sottofondo, quel brusio che si trasforma in chiasso ogni qualvolta che sostiene qualcuno, o finge di sostenerlo, per poi farlo politicamente fuori.
Non cadiamo, però, nell’errore di pensare che quello che si definisce uno stratega lo sia davvero, non pensiamo di essere dentro House of Cards: nella celebre serie, chi voleva raggiungere il potere lo faceva con pazienza, lo coltivava, aspettava il momento migliore, mentre qui siamo alle prese con un soggetto che ci ha provato e che è riuscito a bruciarsi nel giro di appena qualche anno. E, forse, è proprio questo che non gli è ancora andato giù.
Io non volevo solo partecipare alle feste, volevo avere il potere di farle fallire, diceva quel tipo elegante e raffinato che frequentava i terrazzi romani. Il senatore di Rignano, invece, non solo vuole partecipare ai governi, non solo vuole avere il potere di farli fallire, ma ne vuole anche il potere in senso stretto. Alzando sempre di più l’asticella. È quello che ha fatto per tutta la settimana scorsa, insieme alla sua cerchia, rilasciando dichiarazioni uguali nei toni e nei modi, simili più a un ricatto che a una richiesta al proprio capo di governo.
Il motivo di fondo, perlomeno quello palesato, è noto ai più, ovvero la gestione poco collegiale – a detta di Italia Viva – dei 209 miliardi di euro del Recovery Fund che Conte starebbe gestendo in maniera autonoma, affidandosi a una cabina di regia che avrebbe la funzione di commissariare ministri, Regioni e sindaci e di sostituire ed esautorare il Parlamento delle sue mansioni. Per questa ragione l’ex segretario del PD ritiene inaccettabile un simile modus operandi, così come non condivide la ripartizione dei fondi, su cui nessuna discussione sarebbe stata avviata.
Ora, senza voler entrare nel merito del fatto che gli Stati Generali – a cui fortunatamente tutte le forze parlamentari furono invitate – servissero proprio a capire l’indirizzo che si intendeva prendere, senza considerare che nessuna decisione irremovibile ancora è stata presa e ricordandogli che nel Consiglio dei Ministri ci sono ben due esponenti del suo partito, Renzi che difende la centralità del Parlamento copre di ridicolo non solo se stesso – e questo possiamo anche accettarlo – ma anche lo stesso organo legislativo che prima ha calpestato e ora utilizza come parafulmine per attaccare chi siede a Palazzo Chigi. E questo non solo per il continuo ricorrere ai decreti legge del suo governo – 54 in tre anni –, ma anche per il modo in cui partorì la riforma costituzionale, ossia la più importante delle riforme per la quale il coinvolgimento di tutto l’arco parlamentare è indispensabile, e che lui invece fece passare per un suo personale provvedimento. Per non parlare, poi, dell’Italicum, la legge elettorale che aveva fatto approvare e che riguardava solo una delle due Camere, dando per scontato che il Senato sarebbe stato abolito.
Ecco, posto che chi ha davvero a cuore la centralità del Parlamento non può certamente dimenticare questi episodi, capiamoci bene e ricordiamo i veri motivi dell’ossessiva mania di protagonismo che affligge Renzi sin dalla notte dei tempi. Innanzitutto, lo sappiamo bene, è proprio nella sua indole comportarsi così, cercare di attirare l’attenzione – con scarsi risultati, stando ai sondaggi –, appoggiare qualcosa e poi distruggerla: lo fece con Letta, lo ha fatto con Minniti – lanciandolo come candidato alla guida del Nazareno per poi farlo ritirare –, lo ha fatto con il suo ex partito e lo sta facendo adesso con Conte. Lo fa per sentirsi vivo, per dimostrare che ancora vale qualcosa.
In secondo luogo, è che lì, a gestire quella montagna di denaro, vorrebbe esserci lui: i pieni poteri in realtà lo attraggono e non tollera l’idea di non essere coinvolto in prima persona nella gestione di una tale somma. Non accetta di aver creato un partitino che è la quarta gamba dell’attuale esecutivo. Ma, soprattutto, minaccia crisi di governo ovunque perché crede in un governissimo da lui architettato, dal quale far fuori Conte, coinvolgendo invece chi gli è più simile: Berlusconi per natura politica e Salvini per arroganza e prepotenza. E uno del genere ha anche la faccia di insegnare nelle scuole di formazione politica.