In questi mesi di pandemia, abbiamo dovuto imparare e mettere in un preciso ordine i nostri bisogni in modo da garantire l’indispensabile senza danneggiare troppo la salute pubblica. Abbiamo abituato le orecchie a espressioni come beni di prima necessità e priorità, parole che sono servite a spiegare le scelte economiche e governative. E, se da un lato l’emergenza ci ha insegnato che nulla è scontato, dall’altro ciò che accade negli altri Paesi non ci ha ancora realmente aperto gli occhi su quelle che dovrebbero essere le nostre esigenze. Come quella di assicurarci che ciò che accade ai vicini più sfortunati non avvenga anche in Italia. Per farlo, però, dovremmo notare ciò che succede e forse non siamo sulla strada giusta: sono mesi, anzi anni, che il leader ungherese Orbán tenta di esercitare un illecito controllo sulla cultura e sulle università, ma la notizia non ha conquistato facilmente la nostra attenzione.
Orbán è stato infatti protagonista delle pagine internazionali quando ha imposto il controllo governativo sulle azioni dei media o quando ha negato ai cittadini i loro diritti e la libertà alle minoranze, ma l’aggressione alle università è sembrata una notizia di poco conto se paragonata a tutto il resto. Eppure, non ci si può permettere di sottovalutarne la gravità. Come la gestione della pandemia ci ha insegnato, quando si parla di beni di prima necessità possono venire in mente alimenti, prodotti per l’igiene personale e della casa, addirittura elettrodomestici, computer e cellulari, ma non vengono certamente in mente i libri. Non è un caso che con la prima ondata si siano chiuse le librerie, riconosciute come essenziali solo successivamente. Il motivo alla base di queste considerazioni è semplice: se non è certo che con la cultura non si mangi, è però scontato che i tomi di carta non siano indispensabili per la sopravvivenza, possono nutrire la mente, ma non il corpo. Allo stesso modo, quando si parla di priorità non viene in mente l’istruzione. La sanità, sì, e l’economia anche, ma sebbene le scuole siano l’argomento all’ordine del giorno tra polemiche nei confronti delle scelte governative, a quanti importi davvero del destino dei nostri giovani è ancora poco chiaro. E, come accade spesso in questi casi, mentre i cittadini liberi danno per scontata la loro stessa libertà, tanto da non comprendere quanto essa sia fondata sull’indipendenza della cultura e l’emancipazione intellettuale, ai malintenzionati in cerca di potere certe dinamiche sono invece ben più chiare.
Il Primo Ministro ungherese ha messo in atto un’azione di controllo di tutte le università del Paese. Non si tratta di un’iniziativa recente, permessa dagli ultimi mesi di caos pandemico, bensì di un piano iniziato già nel 2017, quando il suo partito, Fidesz, ha bandito gli atenei non ungheresi dal territorio nazionale. All’epoca la norma era stata dichiarata incompatibile con il diritto europeo, ma la sentenza non era bastata a limitare le azioni di Orbán. Se, infatti, è molto probabile che la legge fosse stata ideata per liberarsi della Central European University, che fonda su principi spesso in opposizioni alle politiche del governo, gli obiettivi di Fidesz sono comunque andati a segno poiché l’università ha dovuto trasferire i suoi corsi altrove.
Il trattamento riservato ai templi del sapere è stato lo stesso messo in atto per le altre istituzioni indipendenti. A partire dal 2010, il governo ungherese ha infatti attivato un processo di privatizzazione degli enti indipendenti così da affidarne la gestione a comitati composti da membri vicini al partito. In questo stesso modo, anche i centri di ricerca dell’Accademia Ungherese delle Scienze sono passati sotto il suo controllo. L’istituto, che godeva di riconoscimento internazionale, è ora gestito da un direttivo composto esclusivamente da personalità scelte dal Orbán. Simile è anche la vicenda che ha coinvolto l’Università del Teatro e delle Arti Cinematografiche, che è stata la protagonista delle proteste della popolazione.
È importante non sottovalutare i motivi che possono muovere queste decisioni che rappresentano il più evidente indizio di un potere che tende a diventare smisurato. È proprio in questi casi, infatti, che ci si rende conto di quanto la scienza possa essere di parte o, per meglio dire, di quando la neutralità scientifica fallisca di fronte a un potere incontrollato. L’egemonia culturale che il governo sta evidentemente tentando di imporre rappresenta un gravissimo attacco alla democrazia, grave quanto tutte le altre azioni dispotiche che Orbán ha intrapreso. Eppure, a livello mediatico, il controllo delle università non ha raggiunto grande rilevanza, tant’è che sono mesi che queste politiche sono in atto ma raramente se ne discute. La ragione è certamente da cercare nella considerazione riservata alla cultura, all’istruzione e alla loro indipendenza. Se gli ultimi eventi ci hanno infatti insegnato quanto esse siano sottovalutate sia da istituzioni che da cittadini, è fondamentale comprendere quanto, invece, un apparato culturale indipendente sia il più importante garante della nostra libertà.
In un Paese in cui i centri di ricerca scientifica diventano burattini nelle mani del governo, è facile condizionare i risultati per manipolare l’opinione pubblica. Basta dire che l’omosessualità è una malattia o che è stato dimostrato che il cervello femminile non è in grado di occupare ruoli di potere o, ancora, sostenere che l’anidride carbonica non inquina l’atmosfera e il gioco è fatto. Basta insegnare nelle università esclusivamente il punto di vista conservatore, tradizionalista e patriarcale tipico dell’estrema destra per crescere generazioni prive di opinioni, incapaci di opporsi al partito di maggioranza. E basta monopolizzare il mercato dei libri per crescere cittadini inadeguati a sviluppare un pensiero divergente, personale e diverso dai dettami del potere.
Le azioni di Orbán, le decisioni di un governo che pare agire in modo del tutto arbitrario senza tener conto dei vincoli imposti dalla democrazia, non vanno sottovalutate o ignorate perché sono il sintomo di un sistema che tende progressivamente a incrinarsi. Ma se queste notizie non fanno particolarmente scalpore, se non hanno conquistato l’attenzione mediatica internazionale, non è solo perché nel resto dell’Europa siamo tanto fortunati da dare per scontato la nostra libertà e i nostri diritti. È anche e soprattutto perché non abbiamo idea di cosa sorregga la nostra libertà, su cosa fondino i nostri diritti, ovvero sulla consapevolezza di un popolo che, armato di cultura indipendente, non potrebbe essere assoggettato, almeno non nelle opinioni. E, anzi, non rendendocene conto, dimostriamo di essere molto più esposti di quanto pensiamo.