Dal 4 novembre scorso, sono iniziate le ostilità tra il governo federale etiope e il TPFL (Fronte di Liberazione del Popolo del Tigrè) a guida della regione autonoma del Tigray, nel nord dell’Etiopia, dopo l’accusa rivolta da Addis Abeba alle forze locali di aver attaccato una base militare con razzi che hanno provocato danni alle strutture aeroportuali delle città di Gondar e Bahir Dar. In seguito, ci sono stati il massacro di Mai Kadra, dove sono stati uccisi 600 contadini, e, più di recente, l’attacco armato a un pullman con 34 morti. Il Primo Ministro Abiy Ahmed, che nel 2019 fu insignito del Premio Nobel per la Pace, ha ordinato, quindi, all’esercito federale di sferrare l’offensiva finale contro le forze ribelli e separatiste.
Le notizie più recenti ci raccontano il precipitare degli eventi: nella mattina del 28 novembre, le truppe hanno bombardato la città di Macallè, la capitale del Tigray che conta circa mezzo milione di abitanti, e il Premier etiopico – che nei giorni precedenti aveva rassicurato la comunità internazionale sulla protezione dei cittadini –, in un comunicato della televisione di Stato, ha affermato che sono riuscite a farlo senza prendere di mira civili innocenti. In un resoconto di esponenti del governo regionale del Tigray, invece, si chiede agli osservatori esteri la condanna pubblica dei bombardamenti di artiglieria e aerei e i massacri che vengono commessi, mentre il dipartimento di Stato USA ha segnalato diverse esplosioni che sono avvenute nella notte ad Asmara, capitale dell’Eritrea, accusata dalle forze tigrine di essersi alleata con il governo etiope.
Una parte del Corno d’Africa è in fiamme, insomma, e le Nazioni Unite sono preoccupate per l’eventuale escalation del conflitto armato. La Commissione etiopica per i diritti umani, intanto, ha lanciato l’accusa contro una milizia informale e le forze di sicurezza della regione che si trova nel Nord del Paese per la strage di Mai Kadra, denunciata anche da Amnesty International, che ha raccolto prove testimoniali di un massacro spaventoso contro contadini di etnia diversa da quella tigrina, al lavoro nelle coltivazioni di sesamo e miglio. Centinaia di lavoratori sarebbero stati uccisi a colpi di bastone e accoltellati, mentre le proprietà agricole sono state distrutte. L’UNHCR, l’agenzia ONU per i rifugiati, invece, ha descritto la grave crisi umanitaria in atto, con 40mila persone, tra le quali numerosi sarebbero i bambini e le donne in fuga dal Tigray verso il Sudan.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in una riunione virtuale, ha seguito l’evoluzione degli scontri armati e della crisi umanitaria, descrivendo la metà dei rifugiati come minori, mentre alcune centinaia sono le donne in stato di gravidanza. I civili si sono ritrovati nel mezzo dello scontro tra le forze del governo federale etiope e quelle della regione tigrina e a migliaia hanno attraversato, nelle ultime settimane, la frontiera con il Sudan, accolti dai villaggi di confine nonostante la paura del nemico invisibile rappresentato dal virus dell’influenza da COVID-19. AncheUNICEF (Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia) ha lanciato l’allarme sulla presenza di oltre 2 milioni di bambini nel Tigray, che non sono raggiungibili dagli aiuti umanitari.
Questo lo stato delle cose del conflitto in atto nella parte settentrionale dell’Etiopia, con possibili ripercussioni in Eritrea, Sudan e nelle aree limitrofe. Ma le tensioni tra Addis Abeba e il Tigray erano scoppiate già mesi fa, dopo che i leader tigrini avevano organizzato elezioni locali, nonostante il governo centrale le avesse proibite a causa dell’avanzare della pandemia. Il voto aveva riconfermato la maggioranza al partito TLPF, così la situazione è precipitata nell’ostile non riconoscimento delle diverse organizzazioni politico-amministrative. Fin dall’inizio del conflitto, il Primo Ministro ha affermato che l’Etiopia è pronta ad accogliere e reintegrare le migliaia di cittadini che fuggono dalla regione autonoma e ha promesso – usando le reti social per diffondere il messaggio – di proteggere i loro averi e garantire la pace al loro ritorno nelle località di provenienza.
Abiy Ahmed, in effetti, fu premiato nel 2019 con il Nobel per la Pace proprio per aver pacificato i rapporti politici con la vicina Eritrea, nell’estate del 2018, pochi mesi dopo aver ottenuto il potere, mettendo fine al conflitto combattuto dal 1998 al 2000 e mai realmente concluso con accordi formali. Da allora, il giovane politico ha suscitato molte speranze, in patria e nell’intero continente africano, anche come primo capo di governo oromo, un’etnia largamente diffusa in Etiopia, ma sempre di fatto politicamente discriminata. L’azione del Premier ha portato al cambiamento, con l’intento di raggiungere la pacifica convivenza tra i vari gruppi etnici.
Quando si insediò a capo del governo, il 2 aprile 2018, promise di iniziare un nuovo capitolo per il suo Paese. Liberò migliaia di prigionieri politici ed eliminò la censura su centinaia di siti internet e blog dell’opposizione. Con il suo governo, diversi ministeri sono stati affidati alle donne e una donna, Sahle-Work Zewde, per la prima volta, è diventata Presidente dello Stato etiopico. Il Primo Ministro, insomma, è diventato quasi un eroe popolare, ma ha rotto i vecchi equilibri etnici e gli interessi economico-sociali delle diverse aree dello Stato federale.
Nelle ultime settimane, Abiy Ahmed ha deciso, tuttavia, di rispondere militarmente allo scontro politico con il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, che rischia di trasformarsi, quindi, in un nuovo conflitto interetnico e di portare alla destabilizzazione politica dell’intero Corno d’Africa. Già durante l’Angelus di domenica 8 novembre, è arrivato puntuale l’appello per la pace di Papa Francesco: no alla tentazione delle armi! E Michelle Bachelet, ex presidente del Cile, ora Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha chiesto l’apertura di un’indagine internazionale sui fatti accaduti a Mai Kadra – un vero e proprio crimine di guerra – e ha rivolto il suo invito alle parti coinvolte nel conflitto per avviare un dialogo serio. Perché non ci sarebbero vincitori alla fine di uno scontro armato ma tutti perderebbero, in una zona tra le più instabili del mondo, dove da tempo gli interessi delle varie etnie locali si incontrano e si confrontano con quelli delle potenze economico-finanziarie protagoniste della geopolitica internazionale.